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venerdì 29 febbraio 2008

La malintesa autonomia del paziente, un modo per abbandonarlo

CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 28 febbraio 2008 (ZENIT.org).- Una “eccessiva enfasi” sul “principio di autonomia del paziente” nel prendere decisioni sulla sua terapia conduce a forme di abbandono del malato e a carenze nella responsabilità del medico.
Lo ha affermato la dottoressa Paulina Taboada, medico internista esperto in Medicina Palliativa, nel corso del Congresso Internazionale della Pontificia Accademia per la Vita (PAV) – Città del Vaticano, 25 e 26 febbraio – sul tema “Accanto al malato inguaribile e al morente: orientamenti etici ed operativi”.
Al programma di interventi di carattere scientifico, antropologico, etico e deontologico, la professoressa, che insegna presso la Pontificia Università Cattolica del Cile e dirige il Centro di Bioetica della stessa università, ha apportato un'ampia riflessione sul tema “Mezzi ordinari e straordinari di mantenimento della vita: l'insegnamento della tradizione morale”.
La docente ha chiarito l'equivoco medico che equipara “la distinzione ordinario/straordinario” con l'“usuale/inusuale” nelle terapie.
“La distinzione tra mezzi 'ordinari' e 'straordinari' non si riferisce in primo luogo al tipo di mezzo in generale – ha detto nel suo intervento –, ma piuttosto al carattere morale che l'utilizzo di questo mezzo ha per una persona in particolare”.
Dilemma etico
“Come medico esperto di bioetica, la domanda più frequente che mi pongono colleghi e professori si riferisce ai criteri per decidere la limitazione o meno delle terapie nei pazienti”, ha detto a ZENIT la dottoressa Taboada a proposito del suo intervento.
E' uno degli interrogativi a cui “è più difficile rispondere”, aggiunge, “per noi, come medici, e a maggior ragione per i pazienti stessi e per le famiglie, che inoltre confidano in buona misura nel giudizio medico”.
“Di fronte a questo dilemma etico, la tradizione morale della Chiesa cattolica ha proposto la distinzione classica tra mezzi ordinari e straordinari”, “ampiamente conosciuta nel mondo medico e che si applica per le decisioni di limitare gli sforzi terapeutici”, ma “purtroppo nel mondo medico questo insegnamento non sempre è ben compreso”, osserva.
“La mentalità medica è formata da un pensiero scientifico-tecnico che ama le risposte concrete e rapide”, spiega, ma “per poter rispondere sul limite da raggiungere con le terapie mediche bisogna compiere un giudizio etico, un giudizio di prudenza, che è complesso, ha bisogno di calma e di tener conto di molti elementi”.
Tra questi, la dottoressa Taboada cita “l'utilità medica del trattamento – perché ci sono prove scientifiche che quella data cura possa aiutare in concreto il paziente”, “le complicazioni di quei trattamenti – perché tutti hanno associato qualche effetto negativo”, o anche “se quel trattamento è disponibile nel luogo in questione, una cosa difficile nei Paesi poveri, perché nelle capitali possono esistere e nei villaggi più lontani no”.
Dall'autonomia all'abbandono
Il giudizio – estremamente “delicato”, insiste l'esperta – sull'obbligatorietà morale di una cura pone anche davanti a decisioni “da prendere nel contesto individuale del paziente”.
La dottoressa ha detto a ZENIT che “nell'etica medica contemporanea esiste una tendenza a dare eccessiva enfasi al principio di autonomia del paziente”.
“Rispettando profondamente la libertà e l'autonomia delle persone, non sono d'accordo con questo approccio, perché penso che noi professionisti della salute abbiamo una responsabilità enorme di aiutare i pazienti a prendere decisioni giuste in relazione alla loro salute e alla loro vita”, ha avvertito.
“La responsabilità ultima verso la propria salute e la propria vita ce l'ha sicuramente la persona stessa – sottolinea –, ma per poter prendere una decisione responsabile circa le cure mediche c'è bisogno di informazioni, e queste in genere provengono dal personale medico”.
Perché il paziente possa quindi esercitare bene questa responsabilità, “ha bisogno che l'équipe sanitaria gli fornisca informazioni comprensibili, complete, adeguate alla sua situazione e che in qualche modo includano anche un giudizio morale”.
In questo contesto, la dottoressa propone un rapporto medico-paziente “più partecipativo”, che includa “un processo di dialogo per giungere a una decisione comune della terapia adatta al caso particolare”.
“Mi sembra che lasciare il paziente solo nel prendere decisioni, dandogli solo informazioni, e poi aspettare che scelga ciò che vuole sia una forma di abbandono”, ha sottolineato.
Ascolto e silenzio
Per accompagnare la persona nella fase finale della sua vita, ha proseguito la dottoressa Taboada, è “estremamente importante prendere sul serio il tema della sofferenza”.
“Quando si soffre sono coinvolte tutte le dimensioni e si sperimenta una certa solitudine; c'è qualcosa di incomunicabile”.
Quando ci si avvicina alla fine della vita, “ciò si moltiplica, perché alle sofferenze fisiche” “si somma il dolore spirituale”.
Per questo è importante “imparare ad ascoltare”, che “presuppone anche il captare i segni corporei, non solo le parole”, perché “in molte occasioni i pazienti esprimono molto di ciò che stanno vivendo attraverso i gesti”.
“Nella mia esperienza – ha confessato la dottoressa a ZENIT –, quando le persone dicono 'non ce la faccio più', 'non voglio continuare a soffrire', molte volte hanno bisogno di un sostegno umano, di qualcuno che li accompagni, e anche di un sostegno che getti una luce di senso su quello che stanno vivendo”.
“Mi aiuta una cosa che ho applicato con i pazienti e con me stessa – ha concluso –, una frase di Giovanni Paolo II: molte volte, con la sofferenza, ciò che bisogna fare è mantenere un rispettoso silenzio, e di fronte al mistero permettere a Dio di avere i suoi segreti”, “accettare che non possiamo comprendere tutto”.