Questo Blog nasce con l'intento di promuovere e difendere il diritto alla vita di ogni essere umano dal concepimento alla morte naturale, come fondamento di tutti i diritti umani e quindi della democrazia e, già ampiamente, di dibattere i temi della ricerca scientifica per quanto attiene alle ricadute sulla vita dell’uomo e della società.



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mercoledì 24 giugno 2009

I mass media e il caos relativistico: causa ed effetto

L’uomo, essere sociale per natura, dovrebbe riflettere più seriamente sulle problematiche etiche collegate all’esercizio della sua predisposizione alla socialità. Uno degli strumenti per accrescere la socializzazione (ma non sempre per migliorarla) è la diffusione mass mediatica, strumento mediante il quale avvengono processi di mediazione simbolica in una data comunità di utenti. I mass media sono l’insieme dei mezzi di comunicazione attraverso cui è possibile diffondere un messaggio ad un pubblico vasto ed indifferenziato. Ormai si può constatare che la comunicazione sia diventato un vero e proprio “strumento di potere” sull’orientamento della popolazione.Inoltre l’avvento della pubblicità - inteso come servizio informativo che l’azienda offre al fruitore, a beneficio dello stesso, in realtà dell’azienda stessa - ha iniziato a cambiare il percorso e la mission dello strumento “mass-media”.Il servizio d’informazione, per larga parte identificabile con quello giornalistico, nasce come strumento per la ricerca della verità. Strumento per quella libertà d’informazione onesta e trasparente, che dovrebbe tenere informata la società sull’andamento degli avvenimenti.La pubblicità, invece, come mezzo commerciale, va ad informare il singolo sulla molteplicità di prodotti acquistabili, evidenziandone soltanto le caratteristiche positive, i possibili vantaggi.Ad oggi è facile constatare che il servizio d’informazione si è convertito in un servizio pubblicitario di parte, idealistico. Non si persegue più l’onesta e sincera ricerca della verità, bensì la manipolazione della stessa per migliorare la visibilità di chi ha il maggior potere sull’orientamento dell’informazione. Il risultato è l’orientamento, la manipolazione della popolazione secondo i criteri ideologici di chi, in quel momento, ha più potere, più peso economico. Così, la commistione delle due diverse modalità di comunicazione, quella giornalistica e quella pubblicitaria, ha fatto sì che l’una assorbisse la metodologia dell’altra, stravolgendone le diversità sostanziali.Lo scenario che si presenta è, a mio avviso, alquanto preoccupante. Troviamo una pubblicità che comunica messaggi subliminali, storpiature morali che attaccano i fondamenti della cultura, nonché una considerevole mole di articoli giornalistici che riportano solo verità mediate, di certo snaturate, per favorire un orientamento sociale a discapito di un altro, a seconda della convenienza ideologica.La società, in questo panorama, risulta come intorpidita: sembra che non riesca a reagire e, così stanca, sembra non ricercare più la verità, accontentandosi acriticamente di quella ambigua realtà che gli viene fornita, direi preconfezionata. Così la cultura si sta progressivamente, ma inesorabilmente, modificando. Il rischio, già presente, è il caos relativistico, dei pensieri e dei valori, che facilmente porta ad un’autodistruzione dell’identità della persona, quindi della società stessa.


Emmanuele Di Leo, Presidente di Scienza & Vita di Latina

SCIENZA & VITA NAZIONALE: DALL'ASSEMBLEA ELETTO IL NUOVO ESECUTIVO,I DUE PRESIDENTI E DUE VICEPRESIDENTI


L'Associazione Scienza & Vita Nazionale, riunita oggi in assemblea generale, ha eletto il nuovo consiglio esecutivo, i due nuovi presidenti e due vicepresidenti. Alla presidenza al genetista Bruno Dallapiccola si affianca il professor Lucio Romano, ginecologo dell'Università Federico II di Napoli e docente della Facoltà di Bioetica dell'Ateneo Pontificio Regina Apostolorum. Le due vicepresidenti sono la professoressa Paola Ricci Sindoni e la dottoressa Daniela Notarfonso. Tesoriere e responsabile organizzativo il dottor Edoardo Patriarca.Il nuovo esecutivo risulta così composto: dottor Carlo Valerio Bellieni, professor Roberto Colombo, professor Luca Diotallevi, professor Luciano Eusebi, professor Massimo Gandolfini, professor Gianluigi Gigli, dottoressa Emanuela Lulli, dottoressa Chiara Mantovani, dottoressa Daniela Notarfonso, dottor Gino Passarello, dottor Edoardo Patriarca, professoressa Paola Ricci Sindoni, professoressa Lorenza Violini."In un momento in cui sono sul tavolo una serie di problemi di rilevanza etica relativa alla vita - hanno dichiarato Dallapiccola e Romano - Scienza & Vita è conscia del ruolo che le compete nell'affrontare queste tematiche nel rispetto delle conoscenze scientifiche e antropologiche, avendo come riferimento la tutela della dignità dell'uomo dal concepimento alla fine naturale".

venerdì 19 giugno 2009

‘Infoetica’ nei media: il neologismo del Papa è ancora il grande assente


Con un incisivo neologismo – “infoetica” - coniato durante la prolusione agli operatori dei media, in occasione della 42° Giornata delle Comunicazioni Sociali (2008), le preoccupazioni di Papa Benedetto XVI si sono rivolte verso l’emergenza causata dal “mondo pervasivo della comunicazione”. Il Santo Padre, parlando del sistema e delle modalità dei media, ha posto l’accento sul loro essere ad un bivio: “O aiuteranno l’uomo a crescere nella comprensione e nella pratica della verità, e del bene, o si trasformeranno in forze distruttive che si oppongono al benessere umano”. Proprio sul richiamo che il Papa ha rivolto alla condizione dei mass media – con il loro continuo spostamento dei valori sull’ambiguità, anziché essere i primi testimoni della verità – è necessario soffermarci, e fare una riflessione, iniziando a diffonderla su un giornale online che fa proprio dell’infoetica la sua lanterna. Parto da una lettura dei giornali usciti proprio in quei giorni, nei quali ho spesso letto commenti di autorevoli colleghi che, quasi con piglio risentito, hanno pensato di trasmettere ai propri lettori la convinzione che il richiamo del Papa fosse dettato da una sorta di ripicca, a causa della malevola interpretazione del “famoso” discorso di Ratisbona. Nulla di più assurdo. Nulla di più fuorviante, e manipolatorio, far pensare a ripicche personali, come se la stessa infoetica fosse da concepirsi quale mera ritorsione nei confronti di una certa informazione e dei suoi protagonisti, molti dei quali oggettivamente capaci di manipolare le coscienze, e decisamente performativi delle iper-realtà.Tuttavia, anche se reale, e all’ordine del giorno nelle redazioni, il problema della manipolazione dell’informazione è, per così dire, uno sfondo che accompagna quotidianamente chi sceglie per noi, nel mare magnum delle fonti, la notizia da diffondere, e la modalità con la quale comunicarla. Argomentare, ogni giorno, nelle redazioni di tutto il mondo, su che cosa pubblicare, e perché dare rilievo ad una, piuttosto che ad un’altra notizia, è parte assolutamente integrante del mestiere del giornalista. Alla base, ed è ciò su cui bisogna focalizzarsi, c’è un problema di come la verità viene scritta, quindi comunicata, anzi, di come la verità viene pensata, vissuta, interpretata dalla persona che scrive Il richiamo del Santo Padre, originalissimo, non era da intendersi tanto rivolto ai mezzi di comunicazione, o alle mancanze di coloro che operano nel “villaggio globale”, quanto piuttosto alle persone stesse che fanno comunicazione. Da qui la necessità, imprescindibile, di preparare i comunicatori all’Etica, intesa come sistema di valori, e come una materia, da acquisire con la stessa preparazione “accademica” necessaria ad un giornalista scientifico per scrivere di argomenti medici, filosofici, bioetici.L’idea di un’ Infoetica come disciplina accademica può solo all’apparenza apparire peregrina, magari un’esagerazione. L’assioma secondo cui “non tutto quello che si pubblica è, per il solo fatto di essere pubblicato, eticamente accettabile” può soltanto essere il primo tratto di un disegno etico che rivela un progetto sottostante più alto, ed articolato.Come lo scienziato che “studia” (manipolandolo) l’embrione , così il giornalista può non essere neutro (in qualche modo manipola sempre il lettore). Pertanto l’indicazione del Santo Padre è da attuarsi con estrema urgenza: lo studio dell’Infoetica, a mio avviso, è tanto necessario, per un giornalista, quanto lo è quello della Bioetica.Ritengo che la questione dell’infoetica si debba collocare non solo all’interno di un sistema di produzione dell’informazione. Informazione, peraltro, che corre costantemente il rischio di essere autopoietica, autoreferenziale, manipolatrice. Penso piuttosto che lo sforzo - chiamiamolo “il supplemento etico” richiesto da Benedetto XVI - sia da rintracciarsi sull’impegno, etico e morale, di non confondere, volutamente, e a monte della notizia, la verità.Sappiamo bene, ed a spese dell’intera società, che quando l’informazione è malata lo è perché intrinsecamente malata nella sua eticità. Vale a dire: se l’informazione è eticamente compromessa, lo sarà anche la notizia, quindi il messaggio, quindi l’opinione del lettore. Il danno etico va sanato a monte: questo ci ha detto il Santo Padre.Proprio nell’epoca della globalizzazione, dei nuovi media, mentre oltre un miliardo di persone si connette quotidianamente ad Internet, il rischio di un’ “omologazione delle anime” aumenta progressivamente se il nutrimento è quello delle “verità formattate” .Il lettore, invece, dovrebbe sempre essere messo in condizione di comprendere, con chiarezza e semplicità, quale tipo d’informazione gli viene data.Se l’informazione è “paradigma” di “metafisiche influenti”, allora formare, e responsabilizzare, eticamente chi fa comunicazione potrebbe forse rispondere all’invito del Santo Padre.Noi de Il Giornale di Bioetica siamo pronti ad accogliere l’invito all’infoetica: al suo studio, alla sua codificazione, alla sua attuazione, a partire da chi vi scrive.
Antonello Cavallotto, giornalista scientifico.

sabato 13 giugno 2009

Tutto quello che avreste dovuto sapere ma i media vi hanno tenuto nascosto

Cari Amici, pubblichiamo questi articoli presi dal settimanale "Tempi" .

Un piccolissimo sunto del triste caso di Eluana Englaro. Ottimo esempio per far vedere come i media avrebbero dovuto informare. Con quella onestà che nella gran parte dei casi è venuta a mancare, distorcendo la verità e delineando uno sviluppo tristemente atroce. Glorificando, così, la dea Atena dalle fatteze di un boia che con la sua scure, enfatizza la paura della morte procurando la morte.






Diceva «quando Eluana sarà morta, tacerò». Invece papà Beppino si è messo a insegnare il “diritto di morire” perfino nelle scuole.

«quando Eluana sarà morta, tacerò»

Queste le parole più volte ripetute da Beppino Englaro mentre la figlia Eluana ancora respirava tranquilla nel suo letto di Lecco, accudita da 15 anni dalle suore Misericordine e dai medici della clinica “Beato Luigi Talamoni”.Poi tutti ricordiamo il precipitare degli eventi: è la notte del 2 febbraio 2009 quando, tra raffiche di nevischio, al cancello della clinica lombarda si presenta davvero, come un incubo che diventa realtà, l’ambulanza partita da Udine per prelevare Eluana e portarla a morire. Tutto è buio nella casa di cura di Lecco, tranne quella finestra al secondo piano: tra le fessure delle persiane, tirate giù come un velo di pietà, traspare un drammatico via vai di ombre che si muovono, sono gli infermieri che la preparano al suo ultimo viaggio, sono i medici della clinica che la abbracciano piangendo, sono le suore che le fanno coraggio. E sono le mani sconosciute di chi invece la preleva, sorde perfino alle suppliche delle suore: «La lasci a noi, non chiediamo nulla, solo di poter continuare ad accudirla».

Le reverenza di Fabio Fazio
Noi giornalisti osserviamo muti l’ambulanza che si allontana con il suo carico di vita, e dietro la macchina grigia di Englaro che la segue. Accompagnerà la figlia fino a Udine, fin dentro la casa di riposo “La Quiete”, pensiamo tutti noi. Ma non è così: pochi chilometri e poi svolterà. A Udine all’alba del 3 febbraio Eluana arriverà sola, a Udine la sera del 9 febbraio morirà sola, tre giorni dopo a Paluzza (paese degli Englaro, a pochi chilometri da Udine) sola scenderà sotto terra.Ma Englaro non tacerà neanche allora, anzi: proprio dopo la morte di sua figlia, spentasi per denutrizione e disidratazione tra gli spasmi (come raccontano i testimoni dell’équipe che l’ha condotta al decesso), sarà sempre più presente, terrà teleconferenze e comizi nelle piazze della politica, parlerà di etica e bioetica, dispenserà nozioni e certezze che nemmeno gli specialisti possiedono sugli stati vegetativi e il livello della loro coscienza, sarà ospitato, spesso senza contraddittorio, in tv, ai convegni, sui giornali, dove “insegnerà” cose come il diritto e la libertà, la vita e la morte… A lui (che ci risulta da sempre si sia occupato di materiali edili) Fabio Fazio su Rai Tre, televisione di Stato, pone quesiti come: «Per recuperare una misura di saggezza, che consiglio dà a legislatori e politici?». E ancora: «Di chi è la vita? Mia o di Dio?» (da Che tempo che fa del 21 febbraio 2009). È lo stesso Fazio che lo accoglie in studio con una stretta di mano: «Questo è un applauso per dirle grazie per quello che ha fatto per tutti noi».

La legge è un freno? «Affidatevi ai giudici»
A Englaro negli stessi giorni viene attribuita la cittadinanza onoraria dal Comune di Firenze, mentre l’Unione nazionale cronisti italiani (Unci) lo premia come «fonte intelligente che ogni cronista vorrebbe avere, capace di capire il diritto-dovere di una società avanzata di essere informata in modo completo sui temi più importanti che la riguardano». Englaro ringrazia e ricambia, dicendo una grande verità: «Se non fosse a un certo punto scattato il meccanismo dei media non ce l’avrei fatta». E quanto ha ragione!Ma chi è l’uomo che intellettuali ed esponenti della cultura laicista e radical chic chiamano “eroe civile”? Che cosa ha fatto? Ha preteso e ottenuto la morte di una figlia disabile. Per questo e per null’altro sta salendo in cattedra, chiamato a far lezione ai nostri ragazzi nelle scuole: un mese fa agli universitari della Luiss (con contraddittorio, ma anche con la possibilità di far «registrare il proprio videotestamento presso un banchetto dell’associazione Luca Coscioni»), e il 15 maggio addirittura ai giovanissimi studenti del liceo classico Manzoni di Milano (senza contraddittorio). Giornali e agenzie di stampa parlano di una palestra stipata come non mai, di mani protese per toccarlo. E riportano i suoi insegnamenti: «Se vogliono negarvi le verità, lottate». E i suoi dettami politici: «Cercate di mandare in Parlamento gente più preparata e che abbia a cuore le nostre libertà. Sul testamento biologico occorre una legge agile e snella, altrimenti è meglio lasciare tutto così com’è e affidarsi alla magistratura» (con Eluana ha funzionato). «La presenza del signor Englaro ha convinto parecchio i professori», registra quel 15 maggio con soddisfazione la Repubblica online, che invece annota con biasimo lo sgomento silenzioso degli studenti cattolici.Altre piazze e altre scuole attendono ora di accogliere Englaro.

Tutto quello che avreste dovuto sapere ma i media vi hanno tenuto nascosto


Pubblichiamo qualche stralcio di Eluana. I fatti (144 pagine, 12 euro), il libro appena mandato alle stampe dai giornalisti Lucia Bellaspiga e Pino Ciociola per l’editrice Àncora (in coedizione con Avvenire).

Il testo svela gli aspetti più sconosciuti della vicenda Englaro, Fatti spesso e volentieri censurati, ignorati, tralasciati o “mascherati” da gran parte della stampa italiana.

Così è (se vi pare)
Se Eluana fosse una malata terminale, la sua uccisione apparirebbe «meno grave», una sorta di anticipazione di quanto comunque presto sarebbe avvenuto. Non solo: se fosse sofferente, se il suo corpo fosse devastato, toglierle la vita sembrerebbe una forma di pietà, la fine di un accanimento terapeutico. In realtà Eluana non soffriva affatto del suo stato – come ammette lo stesso dottor Defanti – ma fior di giornali hanno contribuito a deviare quest’informazione.
Englaro racconta un’Eluana scarnificata e inguardabile, «dalla faccia che si era rinsecchita come il resto del corpo», che «pesava meno di 40 chili», le cui «braccia e gambe erano rattrappite», con il viso tutto piagato da «quelle lacerazioni che ai vecchi vengono sul sedere ma a lei anche in faccia» (Corriere della Sera, 10 febbraio). Offre così un quadro raccapricciante di sua figlia, un ritratto incredibile per chi solo pochi giorni prima, a Lecco, aveva visto una paziente ben curata, forte, sana e dalla pelle intatta. E soprattutto che sarà presto smentito dall’autopsia.

Nella stanza di Eluana
Un lenzuolo candido copre la ragazza che giace distesa su un fianco, il destro, così la vediamo di spalle. O meglio, di spalle vediamo una testa di capelli lucidi e neri, tagliati corti, non cortissimi. Quella dunque è Eluana, ci siamo.Mezzo giro intorno al letto e siamo faccia a faccia: buongiorno, Eluana. Non è più la ragazza delle foto, ma chi poteva essere così stupido da pensarlo, nessuno di noi è la persona che era vent’anni fa. Però una cosa colpisce subito: Eluana è invecchiata poco, è rimasta ragazza davvero, anche nella realtà, non solo in quella congelata dalle foto…Di lei vedo le braccia e quelle sono tornite, sode, in carne come mai avevo visto nei numerosi “stati vegetativi” che avevo conosciuto, e pure il volto è rilassato, pieno, normale, non abbrutito da quelle tipiche espressioni deformi che avevo incontrato, bocca spalancata, bava che cola, guance scarne, una sorta di urlo muto di Munch.È primo pomeriggio ed Eluana è sveglia: «Apre gli occhi all’alba e li richiude la sera, di giorno non dorme», spiega suor Rosangela, che resta in camera con noi e parla poco.

Con la scusa di curarla
Eluana viene ricoverata nella casa di cura “La Quiete” grazie a un “Piano di assistenza individuale” finalizzato al «recupero funzionale e alla promozione sociale dell’assistita», oltre che al «contrasto dei processi involutivi in atto»: cioè per essere curata. (…) Una novità la si scopre leggendo ciò che confida il 4 febbraio al Gazzettino Maurizio Mori (presidente dell’associazione Consulta di bioetica onlus, che segue da molto tempo e da vicino Beppino Englaro): al momento d’avviare le procedure per il ricovero a “La Quiete” c’è «una lista d’attesa, ma le gravi condizioni di Eluana hanno richiesto una sorta di procedura d’urgenza». Il dottor Carlo Alberto Defanti, nella certificazione sanitaria che precede la ragazza alla casa di cura, aveva scritto come anamnesi che la paziente «non ha avuto in passato patologie rilevanti» e nella diagnosi aveva parlato di «stato vegetativo permanente post-traumatico», giudicandola in «buone condizioni di salute». Aveva certificato che il suo ciclo sonno-veglia è «normale» e che «non ha piaghe da decubito». Quali sarebbero le «gravi condizioni» che hanno legittimato «una sorta di procedura d’urgenza»?L’Unità di valutazione distrettuale della Asl di Udine autorizza l’accettazione affermando che Eluana ha una «rete familiare in difficoltà nella gestione assistenziale», quindi le serve «assistenza per le attività della vita quotidiana nelle 24 ore».La ragazza entra il 3 febbraio e immediatamente viene ceduta all’équipe capeggiata da Amato De Monte, l’associazione Per Eluana: il cui operato (previsto in un protocollo firmato il giorno precedente) mira all’opposto del recupero e della cura di Eluana!

Un’autopsia imbarazzante
Da quelle pagine, si desume, «di piaghe neanche l’ombra». L’11 febbraio è anche il giorno in cui iniziano a circolare altre verità: «Secondo i periti era in buone condizioni di nutrizione», scrive l’Ansa. «Al momento del decesso pesava 53 chili», rivela il Corriere della Sera: altro che «meno di 40 chili», dunque. Eluana pesava 56 o 57 chili prima di partire per Udine. Infine la notizia più grave: «È stato calcolato anche il peso del cervello, sarebbe uguale a quello di una persona normale». Per la pubblica opinione è un fulmine a ciel sereno: il gruppetto di medici aveva infatti assicurato cose ben diverse. Che lei morendo non avrebbe sofferto perché «il suo cervello, come quello di Terri Schiavo, è ridotto almeno alla metà del suo peso».

«Alzheimer, ovvero non-persone…»
Al congresso della Società italiana di neurologia, Defanti nel 2007 tiene una relazione intitolata “Etica del prendersi cura dei pazienti con demenza”. Leggiamo: «L’invecchiamento e ancor più la demenza sollevano il problema del valore della vita umana. Certo è che davanti a una vita molto diminuita, per esempio a quella di un demente in fase avanzata, l’interrogativo se la sua vita abbia lo stesso valore di quella di uno di noi sorge abbastanza naturalmente… Un problema peculiare della demenza è quello dell’identità personale (Ip) – sostiene ancora Defanti –. Il concetto è controverso. Vi è infatti discussione su un punto: se cioè dopo la perdita dell’Ip il soggetto che resta è in certo modo “un’altra persona”», cioè «ha perso le caratteristiche stesse di persona (= è una non-persona)». Il malato di Alzheimer, spiega infatti, non ha più nemmeno la capacità di riconoscere se stesso e i suoi cari, e «questo cambiamento fa sorgere inquietanti interrogativi, ad esempio, se sussistano verso la persona così cambiata gli stessi doveri di prima, per non parlare dell’affetto».

Un disegno che parte da lontano
Era la fine del 1995. «Ricordo ancora – attacca Mori – la telefonata fattami da Defanti: “Ieri sera sono venuti da me i genitori di una giovane che, dai referti presentati, è in stato vegetativo permanente. Si è trattato di una situazione molto difficile, ma anche bella e coinvolgente… Ho spiegato loro cosa si fa negli Usa e in Gran Bretagna e che avremmo potuto parlarne con maggiore attenzione e distensione”».La telefonata di Defanti a Mori continua. Il neurologo offre anche un profilo psicologico degli Englaro: «Sono persone di grande caratura e, mi pare, molto decise: forse sono in grado di portare avanti un caso come quello di Nancy Cruzan o di Tony Bland (battaglie legali per l’eutanasia, la prima negli Usa nel 1990, la seconda nel Regno Unito nel 1993, nda). Vedremo! Per ora ho assicurato loro il mio interessamento: studierò meglio il caso dal punto di vista clinico e poi valuteremo se ci sono le condizioni per procedere e come si svilupperà la situazione. Ma sono persone serie, vanno seguite!».

Il bluff della spina
Quasi tutte le testate si ostinano a parlare di «spina» e di «staccare», ma non dicono che quello di Eluana è un letto normalissimo, così come la sua stanza. Nessun macchinario, nessun monitor. Soprattutto niente che si possa staccare. Se si vuole che Eluana muoia bisogna agire, in un modo o in un altro, perché non ha malattie, non dipende neppure da un respiratore, e al di là della lesione cerebrale dovuta all’incidente non c’è nulla nel suo corpo che non funzioni, è una grave disabile come tanti altri, non una malata terminale. La soluzione potrebbe essere un’iniezione come avviene in molte nazioni per le esecuzioni capitali, ma il metodo è barbaro, così come l’ipotesi di un soffocamento. Più «accettabile», anche se più lungo, appare lasciarla senza alimenti e senz’acqua finché non si spegnerà. Un sistema che avrebbe lo stesso risultato con qualsiasi paziente incapace di reagire, non solo le migliaia di stati vegetativi in Italia, ma tutti i bambini nati con cervello atrofizzato, i disabili gravissimi o i malati di Alzheimer, per citare alcune delle vite «non degne».

La presunta volontà
Centinaia di altri genitori, che da molti anni lottano eroicamente giorno e notte per tenersi in casa i loro figli disabili, si sentono annientati: «Se lui è premiato, vuol dire che noi abbiamo sbagliato tutto…». Un uomo di Roma, Claudio Taliento, che da sei anni accudisce la moglie in stato vegetativo, va per logica: «Ora anche lei è potenzialmente sopprimibile: basta trovare un testimone che dica: “Non avrebbe voluto vivere così” e posso sopprimerla». Non entriamo nel merito del premio dato a Englaro, ma sarebbe un bel gesto che l’Unci desse la stessa onorificenza anche a uno di questi padri. Uno soltanto, per tutti i 2.700. Di loro, lasciati soli, i giornali non parlano e le istituzioni si dimenticano.

Il Crocifisso del Samurai

Rino Cammilleri racconta la grande rivolta dei samurai cristiani


di Antonio Gaspari



Un romanzo straordinario, il racconto di un fatto vero che ha segnato la storia di un paese e della comunità cristiana, un evento epico e commovente, una vicenda che narra l’eroismo di samurai e contadini, che pur di avere la libertà religiosa morirono tutti martiri. “Il crocifisso del samurai”, edito da Rizzoli e scritto da Rino Cammilleri, racconta la grande rivolta dei samurai cristiani di Shimabara avvenuta nel 1637. Quarantamila cristiani giapponesi, donne e bambini compresi, si ribellarono alla persecuzione e si arroccarono nella penisola di Shimabara, nel castello in disuso di Hara. Qui tennero testa per cinque mesi al più grande esercito di samurai che la storia del Giappone avesse mai visto.Nella battaglia finale i cristiani vennero uccisi, migliaia delle loro teste vennero infilzate su pali per terrorizzare chiunque avesse voluto farsi cristiano.L’armata dello Shogun riuscì a stroncare la ribellione, ma al costo di settantamila uomini ben armati e addestrati che morirono combattendo contro contadini e anziani samurai cristiani che pure erano affamati e indeboliti dal freddo, ma saldi nella fede in Gesù Cristo. Per evitare l’onta di non essere riuscito a domare la rivolta il generale giapponese Matsudaira Nobutsuna, offrì ai rivoltosi l’onore delle armi, la dilazione sulle tasse e il perdono, ma questi rifiutarono. L’unica cosa che chiesero era la libertà di professare la religione cristiana. Ma proprio questa libertà era ciò che le autorità giapponesi temevano. Per i due secoli successivi alla rivolta cristiana, il Giappone si isolò dal mondo e perseguitò tutti coloro che si dicevano seguaci di Cristo.Eppure, quando nella seconda metà dell’Ottocento i missionari europei poterono tornare in Giappone, trovarono che i discendenti di quegli antichi cristiani avevano conservato la fede nella clandestinità, tramandandosela di generazione in generazione.Rino Cammilleri, noto giornalista e saggista, ha svolto una intensa ricerca storica per scrivere questo romanzo così avvincente.Cammilleri, che ha trascorso la vita a indagare la storia della cristianità, è autore di rubriche in diverse testate giornalistiche. Ha pubblicato decine di libri, tra cui “I santi di Milano” (Rizzoli 2000), “Gli occhi di Maria” (con Vittorio Messori, Rizzoli 2001) e “Immortale odium” (Rizzoli 2007).ZENIT lo ha intervistato.Per anni lei ha studiato e raccontato la storia del cristianesimo. Come è arrivato a questa struggente storia dei martiri giapponesi?Cammilleri: Chi mi segue sa che mi sono a lungo occupato di sfatare le “leggende nere” che gravano sulla storia della Chiesa. I presunti scheletri nell’armadio del cristianesimo (Inquisizione, Crociate, Galileo, Conquistadores…) ormai li ho revisionati tutti. Ma in tutti questi anni mi sono imbattuto in storie meravigliose che nessuno ha mai raccontato, almeno non col risalto che meritano. Sono storie così avvincenti da superare la fantasia e sono ideali per un romanzo storico, genere al quale i cattolici non si dedicano più da troppo tempo. Ho deciso, allora di farlo io. Col precedente “Immortale odium” (Rizzoli) ho messo in scena il braccio di ferro ottocentesco tra la Chiesa e la Massoneria, prendendo spunto dall’attacco al corteo funebre del b. Pio IX nel 1881. Con questo “Il crocifisso del samurai” (sempre Rizzoli) ho puntato il riflettore sulla grande rivolta di Shimabara, in cui nel 1637 quasi cinquantamila cristiani giapponesi, guidati da samurai cristiani, si immolarono in nome della libertà religiosa e del loro diritto a professare la religione di Cristo. Perché le autorità giapponesi ebbero così paura del cristianesimo?Cammilleri: Con la battaglia di Sekigahara del 1600 erano finite le eterne guerre feudali e il clan dei Tokugawa si era imposto su tutto il Giappone, governando di fatto al posto dell’Imperatore. Il cristianesimo, portato da s. Francesco Saverio, era stato dapprima bene accolto e quasi trecentomila giapponesi si erano fatti battezzare. Ma contro di loro “remavano” i bonzi buddisti e i mercanti protestanti, invidiosi della concorrenza spagnola e portoghese. Misero la pulce nell’orecchio allo Shogun (il dittatore): i missionari cattolici erano l’avanguardia dell’invasione spagnola e portoghese. La prova? Il fatto che i cristiani, quando erano messi di fronte alla scelta tra le leggi dello Shogun e quelle di Cristo, preferivano farsi uccidere anziché disobbedire a quest’ultimo. Perché il sangue di quei martiri sembra aver generato così poco frutto?Cammilleri: Non direi, anzi. Per due secoli, proprio a causa di quella rivolta, il Giappone si chiuse al mondo esterno. Quando i missionari poterono tornare, nella seconda metà dell’Ottocento, trovarono che il cristianesimo era sopravvissuto nelle catacombe, tramandato di padre in figlio. I «cristiani nascosti», sfidando la morte (il cristianesimo sul suolo giapponese ebbe il permesso di esistere solo alla fine del secolo), contattarono il primo missionario e gli fecero addirittura l’esame per vedere se era cattolico o protestante. Non si è mai vista una fedeltà così tenace. L’animo giapponese ha anche questo bellissimo aspetto. Nella parte finale del romanzo lei ricorda la profezia di Tertulliano secondo cui “il sangue dei martiri è seme di nuovi cristiani”, ma poi riflette anche sul fatto che in tanti luoghi il cristianesimo è stato soffocato nel sangue. Ha una spiegazione teologica per questa apparente contraddizione?Cammilleri: No. Io posso basarmi solo sui fatti storici. Nei luoghi dove si è stesa la cappa islamica, per esempio, il cristianesimo è praticamente scomparso. In Giappone la maggior concentrazione di cristiani era nella zona di Nagasaki. Ebbene, proprio a Nagasaki è stata sganciata la seconda bomba atomica. La cristianità nipponica è stata azzerata per due volte. Tutti i beatificati giapponesi sono martiri. Tertulliano aveva sotto gli occhi i cristiani romani. Noi, oggi, abbiamo una visuale più ampia della sua. Non basta impiantare il cristianesimo, occorre difenderlo: questo è quanto la storia ci insegna. In Indocina la persecuzione cessò solo quando intervennero le cannoniere francesi. In Cina, i massacri di cristiani da parte della setta dei Boxers smisero quando le potenze occidentali inviarono corpi di spedizione. Oggi in Giappone solo il 4% della popolazione è cristiano. Crede che la situazione possa cambiare e che i cristiani possano crescere verso cifre significative? Cammilleri: Il cristianesimo ha dalla sua, agli occhi degli orientali, il prestigio dell’Occidente. Ma anche la pessima immagine di sé che, sul piano morale, l’Occidente secolarizzato ormai offre. E’ l’Occidente che, nel bene e nel male, dà il “la” all’intero pianeta. E se il sale non riacquista sapore non serve davvero a niente. Se si rievangelizza l’Occidente il resto seguirà. I samurai giapponesi sembrano molto simili ai legionari romani. Con la differenza che i legionari che si convertirono al cristianesimo, che pure morirono a migliaia, generarono chiese, devozione, altre conversioni, fino ad arrivare all’imperatore Costantino. Cosa è accaduto in Giappone perché la storia si svolgesse in maniera così diversa?Cammilleri: Proviamo a immaginare se non ci fosse stato Costantino, se il cristianesimo fosse stato bandito dalle legioni, se si fosse continuato a perseguitarlo con l’efficacia ossessiva di Diocleziano. Le precedenti persecuzioni erano state sporadiche e localizzate. La pressione non fu mai così capillare da impedire alla pianticella di respirare e svilupparsi. Costantino, da buon giardiniere, diede spazio e acqua e concime. Infatti, già con Teodosio, sessant’anni dopo, il cristianesimo era diventato maggioritario nell’Impero. Ma in Giappone non fu così. Il cristianesimo fu perseguitato nei modi più feroci per più di due secoli, e solo esso. Una pausa di settant’anni, poi, come sappiamo, giù una atomica. Tuttavia, oggi c’è un detto in Giappone: quando si commemora il giorno della bomba, «Hiroshima urla, Nagasaki prega». Proteste antiamericane nella prima, composte liturgie nella seconda. Il “piccolo gregge” giapponese ha la pelle dura, e la testa anche di più.Per molti anni il mondo giornalistico e letterario cattolico italiano è stato impegnato a rispondere alle calunnie e alle allusioni di diversi scrittori contrari a Cristo e alla Chiesa cattolica. Con questa sua opera così come con il libro di Rosa Alberoni “La prigioniera dell’Abbazia” si può cominciare a dire che emerge e si consolida un filone di romanzi che ruotano attorno ai valori, alle virtù, all’epopea, alla storia, all’eroismo dei cristiani?Cammilleri: Le cose emergono se c’è qualcuno che le fa emergere. Spero proprio che si tratti di «filone», perché per il momento mi pare solo una cocciuta iniziativa di pochi. Cocciuta, ho detto, perchè questi combattono non più contro intellettuali avversari ma contro il mercato. Se la gente preferisce comprare libri sui vampiri o sui serial killer, i casi sono due: o i romanzieri cattolici non sono capaci di avvincere e non annoiare, o anche il pubblico cattolico preferisce vampiri e serial killer. In quest’ultimo caso siamo davvero messi male.