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domenica 26 febbraio 2012

la figlia ha un tumore, la mamma anticipa il parto per farle conoscere la sorellina.

Da: Leggo

PRESTON - Un gesto d'amore quello che mamma Paula Holmes ha fatto nei confronti della figlia Katy. La donna, che aspettava un'altra bambina, ha chiesto ai medici di anticipare il parto di tre settimane, così che la sua figlia più grande potesse avere l'opportunità di conoscere la sorellina. Infatti a Katy, 10 anni, è stato diagnosticato in ottobre un incurabile tumore al cervello che degenera molto velocemente.

Paula, di Penwortham, Lancs, ha detto: «Quando ho realizzato che ero incinta e Katy avrebbe potuto non vedere la bambina ero terrorizzata. I medici hanno accettato la mia proposta senza esitazioni».
A far scoprire il tumore, lo spirito di osservazione dei genitori, che hanno sempre visto la figlia sorridente e raggiante. Quel sorriso è venuto a mancare in un'assemblea scolastica, quando il preside ha consegnato a Katy un attestato di merito, ma la bambina non ha sorriso - anzi - e sembrava triste. Dopo alcune settimane sono cominciati dei dolori di testa e visione doppia, fino a che non è giunta la diagnosi.

La donna, insieme al marito David, ora spera in un miracolo: un chirurgo australiano, Charles Teo, potrebbe essere l'unica salvezza di Katy, disposto ad operare dove tutti gli altri si tirano indietro.
«Non abbiamo parlato a Katy della sua condizione terminale, vogliamo darle speranza. Per ora adora Scarlett, e quando gliela mettiamo in braccio riesce a sorridere».

giovedì 23 febbraio 2012

CONCLUSO IL PROCESSO DIOCESANO DI JÉRÔME LEJEUNE

Da: Chiesa Cattolica

La causa di beatificazione dello scienziato francese passa ora a Roma

di Anne Kurian

ROMA, giovedì 23 febbraio 2012 (ZENIT.org) - La diocesi di Parigi celebra la chiusura del processo diocesano della causa di beatificazione e canonizzazione del professor Jérôme Lejeune (1926-1994). È “un primo passo importante” verso gli altari dello scopritore dell’anomalia cromosomica all’origine della sindrome di Down, la trisomia 21.

La fine dell’indagine a livello diocesano verrà celebrata solennemente durante una sessione pubblica mercoledì 11 aprile 2012, alle ore 17, nella cattedrale parigina di Notre-Dame. Per l’occasione, saranno eseguiti anche i vespri solenni alle ore 17.45, presieduti da Dom Jean-Charles Nault, abate dell’Abbazia benedettina di Saint-Wandrille e postulatore della causa, ed una “Messa per la Vita”, alle ore 18.30, presieduta da monsignor Eric de Moulins-Beaufort, vescovo ausiliare di Parigi.

“È un primo passo importante perché segna la fine dell’indagine informativa”, ha detto il postulatore, precisando però che “in questa fase dell’indagine, nessuna conclusione viene data dalla Chiesa”. Infatti, “lo studio qualitativo della vita e delle virtù verrà effettuato nell’ambito dell’inchiesta romana”, che inizia subito dopo la chiusura del processo diocesano.

Mayté Varaut, presidente dell’associazione Amici del professor Jérôme Lejeune, coinvolta nel processo di beatificazione, riferisce che l’organismo sta ricevendo testimonianze “dal mondo intero”, anche da parte di “studiosi felici di manifestare che non c’è contraddizione tra la fede e la scienza”. L’associazione ha messo in luce anche testimonianze provenienti da “una nuova generazione di giovani impegnati al Servizio della Vita”.

L’associazione Amici del professor Jérôme Lejeune auspica che la testimonianza dello scienziato “susciti nuove vocazioni di cristiani pronti ad essere Servitori della Vita, con intelligenza, coraggio e lealtà, per il vero bene dell’Uomo e dell’Umanità”.

Il processo diocesano della causa di Jérôme Lejeune è stato aperto il 28 giugno del 2007 a Parigi. Vi hanno partecipato una ventina di volontari, esperti storici, scienziati e teologi. Dopo la chiusura della fase diocesana, il dossier si trasferisce a Roma, presso la Congregazione per le Cause dei Santi, per l’esame del carattere “eroico” delle sue virtù. Per la beatificazione, sarà poi necessario il riconoscimento di un “miracolo” attribuito alla sua intercessione.

Sposato e padre di famiglia, Jérôme Lejeune è stato medico e ricercatore. Ritenuto il “padre della genetica moderna”, fu insignito nel 1962 con il Premio Kennedy, per la scoperta dell’origine cromosomica della trisomia 21.

È noto per aver assistito e seguito numerosissimi pazienti con deficit intellettivi e per il suo impegno a favore del rispetto per la vita umana. È stato membro dell’Accademia delle Scienze morali e politiche ed è stato insignito di numerose onorificenze internazionali.

Nel 1997, in occasione del suo viaggio in Francia per la Giornata Mondiale della Gioventù, Papa Giovanni Paolo II si recò a Châlo Saint Mars, nell’Essonne, per pregare sulla tomba del suo amico, che aveva nominato il primo presidente della Pontificia Accademia per la Vita.

[Traduzione dal francese e rielaborazione a cura di Paul De Maeyer]

sabato 18 febbraio 2012

Prime riflessioni da una lettura del Libro Bianco sugli stati vegetativi e di minima coscienza

di: Mariano de Persio, Membro Consiglio Scientifico - Scienza & Vita di Latina


Alcuni passaggi del documento del gruppo di lavoro sugli stati vegetativi e di minima coscienza istituito dal Ministero della Salute rivelano come la questione sia stata affrontata con un metodo scientifico e fenomenologico esistenziale cui cercheremo di aggiungere alcune riflessioni.  Il documento raccogliendo il punto di vista delle associazioni che rappresentano i famigliari e quello di un gruppo  composto da neurologi e rianimatori, individua le “buone” pratiche e le soluzioni alle problematiche circa percorsi di cura. Scorrendo il documento si evidenzia che «Lo stato vegetativo sia diagnosticato senza connotarlo con gli aggettivi di ‘persistente’ o ‘permanente’, ma indicando la causa che lo ha determinato e la sua durata»; quando una persona in stato vegetativo «raggiunge la stabilità clinica entrando in una fase di cronicità, deve essere considerata persona con ‘gravissima disabilità» .

Niente più ‘persistente o permanente’ dunque, lo stato vegetativo sarà classificato come una ‘gravissima disabilità’, una volta raggiunta la fase di cronicità, perché non si può escludere la presenza di elementi di coscienza in questi pazienti e la possibilità di un miglioramento, «non può essere escluso un miglioramento delle funzioni cognitive, anche a distanza di molti anni dall’evento acuto». Tra l’altro, è errore comune usare indistintamente il termine coma oppure stato vegetativo; ma le due condizioni sono ben diverse.
Va sottolineato che tra stato ‘persistente o permanente’ e ‘gravissima disabilità’, c’è  una differenza di sostanza. Infatti catalogando lo stato vegetativo sotto la voce disabilità, le associazioni chiederanno che venga inserito nei livelli essenziali di assistenza (LEA).

Solo soffermandosi su questi aspetti si nota come si cerchi di muoversi senza intaccare le diverse sensibilità filosofiche e religiose. Non ci sono affermazioni forti sulla vita, ma si pone attenzione comunque alla qualità da raggiungere in ambito assistenziale, si ricercano le cause di un evento diagnosticandone gli effetti, limitando gli errori, mantenendo una permanenza nella ricerca. E soprattutto si esprime l’attenzione a coloro che hanno esperienza di famigliari in stato vegetativo. Esperienze e verità soggettive che si incontrano nella ricerca di una denominatore comune in cui potrebbe intravvedersi un barlume di oggettività.

Il documento non è stato da tutti accolto positivamente:  qualcuno si esprime contro le conclusioni del documento connotandolo come più ideologico che scientifico oltre ad affermare che sembra un'affermazione con un forte valore etico e ideologico la definizione dell'idratazione e dell'alimentazione artificiali come “cure normali” e non terapie mediche, perché la conseguenza sarebbe quella di trasformare la loro eventuale sospensione in un “abbandono assistenziale”[1]. Si potrebbe invece leggere una attenzione alla persona: la persona in stato vegetativo, la persona del famigliare, la persona dei ricercatori e medici in una prospettiva di personalismo ontologicamente fondato.

L’atteggiamento dell’uomo di fronte alla vita in ogni suo momento e in ogni situazione anche di stato vegetativo, la sua disponibilità ad accoglierla e rispettarla o, al contrario, la sua volontà di ridurla a mezzo così come egli desidera, pongono «con drammatica forza la questione fondamentale: se l’uomo sia prodotto da se stesso o se egli dipenda da Dio»[2] .


[1] http://bioeto.blogspot.com/2010/06/sullibrobiancosuglistativegetativi.html (Ult. cons. 1.XII.2010)
[2] BENEDETTO XVI, Caritas in Veritate, §§ 74.75

venerdì 17 febbraio 2012

Staminalia (I)

da: NEUROETICA E NEUROSCIENZE di Alberto Carrara


Inizio con questo post l’analisi e la riflessione sul libro Staminalia. Le cellule «etiche» e i nemici della scienza di Armando Massarenti (Ed. Guanda, Parma 2008) che ho avuto modo di recensire per la rivista Studia Bioethica.

L’analisi che condurrò si baserà sulle affermazioni, “chiare ed evidenti”, che citerò di volta in volta, e che saranno le parole stesse dell’autore, le “ipsissima verba Massarenti” come vorrebbero i latini.

Iniziamo subito dall’INTRODUZIONE.

A pagina 5 l’autore esordisce così: “È la più grande promessa della medicina del XXI secolo, ma non è detto che riusciremo a beneficiarne”. È chiaro che ci si sta riferendo alla ricerca sulle cellule staminali. Bisogna notare la verità della frase iniziale: è, in effetti, una grande PROMESSA. Come è ovvio, una promessa è qualcosa che si attende con speranza nella sua PROBABILE REALIZZAZIONE FUTURA.

Massarenti dice bene: la ricerca scientifica che coinvole le cellule staminali (da ora in poi abbrevierò: staminali) è davvero un settore di grande sviluppo che sta attualmente già provocando enormi risultati a livello di conoscenze di biologia molecolare, di genetica e citologia.

Basti pensare che c’è stata una vera svolta epocale: dal “dogma” che affermava la presenza di cellule staminali adulte soltanto a livello di alcuni organi ed apparati (anche in biologia molecolare si parla e si affermava il “dogma”: “un gene, una proteina”, poi smentito dalle stesse evidenze sperimentali relative allo splicing genetico, etc., cose che appassionano i tecnici biotecnologi come il sottoscritto, ma che forse è meglio sorvolare per non entrare, in questa sede, in maggiori dettagli), fin all’evidenza che gruppi (pools) di cellule staminali adulte si riscontrano praticamente in tutti gli organi del nostro corpo, basterebbe considerare due recenti pubblicazioni apparse su Nature, persino a livello cerebrale e cardiaco!


Inoltre, gli studi sperimentali su cellule staminali adulte hanno permesso l’evidenza del processo di TRANSDIFFERENZIAZIONE cellulare. In sintesi, si definisce la transdifferenziazione il processo di trasformazione di cellule provenienti da uno dei 3 foglietti embrionali (ectoderma, mesoderma ed endoderma) in cellule di altro foglietto attraverso un processo di “riprogrammazione ed espressione genetica” che in teoria era già stato precedentemente (ed ovviamente) postulato. Un biologo molecolare lo troverebbe abbastanza ovvio (almento in teoria!).

Bisognerebbe leggere una delle recenti pubblicazioni circa le speranze e previsioni sull’uso delle cosiddette “cellule staminali indotte” o iduced pluripotent stem cells (iPS) per rendersi conto della situazione odierna sulle cellule staminali.

Concludo per il momento con una semplice consatatazione. Fa sorridere la sintonia che c’è tra il libro di Massarenti e certi slogan che si ripetono purtroppo anche su siti di una certa serietà come l’italiamo Molecular Lab che pubblica un articolo dal titolo: “Staminali adulte e deludenti” che inizia con questi toni: “La campagna referendaria è stata segnata dalla contrapposizione fra difensori delle staminali embrionali e crociati delle staminali adulte”. Certamente il connotato “crociati” per coloro che promuovono la ricerca scientifica con cellule staminali adulte è sicuramente un refuso o uno sbilanciamento involontario... considerando poi che le fonti citate da questo articolo risalgono al 2002-2004, cioè a circa di 10 anni fa, non mi resta che concludere amaramente: se questa è serietà e aggiornamento scientifico allora ben venga la barbarie dell’impiego di esseri umani (embrioni umani) per il puro diletto di certi scientisti. Certo non si pretende un super-aggiornamento al giorno presente, ma un pizzico di serietà e rigore scientifico.

giovedì 9 febbraio 2012

«I pazienti in stato vegetativo non sono malati terminali»

da: Tempi.it

Matilde Leonardi, è il direttore scientifico del “Coma Research Centre" che, all'interno dell'Istituto Besta di Milano, si occupa di pazienti in stato vegetativo secondo il principio della “perseveranza terapeutica”:«Una modalità per prendersi cura dei pazienti, anche gravi, in modo che possano godere di trattamenti adeguati alla loro situazione».
Sabato 4 febbraio si è svolto a Gallarate, in provincia di Varese, un convegno dedicato principalmente a medici e infermieri, dal titolo: "Percorsi etici e condivisione della cura: accoglienza e tutela delle persone in stato vegetativo e di minima coscienza". Tema complesso e di stretta attualità, dibattuto proprio alla vigilia della II Giornata nazionale degli stati vegetativi, istituita dalle associazioni delle famiglie con parenti in simili condizioni e con disabilità gravissime e che si celebra il 9 febbraio, lo stesso giorno in cui Eluana Englaro morì nel 2009. In questo convegno nel quale si è fatto il punto della situazione sulle cure neurologiche in Italia, l’Istituto Besta di Milano ha presentato i risultati del progetto “Week Service”, da poco più di un anno in funzione. tempi.it ne parla con la dott.ssa Matilde Leonardi, direttore scientifico del “Coma Research Centre” dell'istituto. «Prima di parlare del nostro progetto vorrei partire da una domanda, spesso mal posta, nel dibattito attuale sugli stati vegetativi. Non dobbiamo chiederci “Che cosa vorresti tu se capitasse a me”. La domanda vera è: “Che cosa dobbiamo fare noi, come società, quando ci troviamo davanti a persone in queste condizioni”. È sbagliato anche porre la questione in termini di “diritto alla vita” o “diritto alla morte” perché non stiamo parlando di malati terminali». 

È ancora irrisolvibile il dilemma tra accanimento o abbandono terapeutico?
Tra l’accanimento terapeutico, che riguarda tutti quei trattamenti sproporzionati alla situazione clinica del paziente che recano più danni che benefici alla persona, e l’abbandono - vogliamo chiamarlo con il vero nome, eutanasia? -, che non è previsto in Italia, che provoca direttamente e volontariamente la morte di un malato grave, si inserisce la posizione della “perseveranza terapeutica”. Una modalità con la quale ci si prende cura dei pazienti, anche gravi, in modo che possano godere di trattamenti adeguati alla loro situazione. Quindi l'accanimento terapeutico non è l’oggetto del dibattito.

Tutto chiaro ma è la stessa classe medica che avanza dubbi sulle procedure.
Dipende. Con l’Istituto Besta abbiamo realizzato uno dei più grandi studi al mondo sui pazienti in stato vegetativo e devo dire, francamente, che i giudizi dei medici che lavorano con questo tipo di pazienti sono assolutamente univoci. Se le obiezioni arrivano da chi non ha contatti con questa tipologia di malati i giudizi non possono reggere il confronto.

Può illustrarci il progetto “Week Service”?
Questo progetto è all’interno del “Coma Research Centre” finanziato da Regione Lombardia, che vede l’Istituto Besta accogliere ogni settimana due pazienti, dal lunedì al venerdì. L'equipe è formata da circa quaranta ricercatori, di cinque dipartimenti e lavoriamo su questi pazienti facendo una mappatura completa sia della cognizione neuro-scientifica, cioè la condizione della funzionalità celebrale, sia di tutte le condizioni cliniche, in cui sono coinvolti dentista, nutrizionista, logopedista, neurochirurgo, fisiatra, fisioterapista. Tutte queste figure, oltre alle varie specializzazioni neurologiche, valutano il paziente durante il ricovero settimanale. I degenti arrivano da diverse regioni italiane e i loro familiari sono ospitati dall'Associazione “Casa amica”. Tutte le valutazioni specialistiche sono fatte indipendentemente l’una dall'altra mentre la dimissione è generale e i casi vengono discussi dall'intera equipe.

Quali sono i vantaggi per il malato?
Diamo indicazioni, valutazioni. Qualche settimana fa abbiamo scoperto che un ragazzo comunicava con l’alluce, in un sistema binario di “Si/No”. Quindi abbiamo dato indicazioni al riabilitatore che lo segue a casa e adesso lavoreranno per instaurare un linguaggio per comunicare con il ragazzo.

Questo progetto è un modo per lasciare meno sola la famiglia del malato?
Abbiamo basato il lavoro del centro su una grande rete nazionale. Ci sono sovvenzioni da Regione Lombardia e tutto nasce da un'iniziativa finanziata dal Ministero della Salute che ha visto il coinvolgimento di 39 associazioni di familiari e 602 pazienti. Questa è la base nazionale da cui è partito il progetto lombardo. Ma anche le famiglie che arrivano da noi che non hanno contatti con le associazioni sono messe in rete, perché pensiamo che la condivisione della fatica e delle difficoltà serva ad un alleviare la sofferenza.

Ci sono altri problemi nel rapporto famigliare?
Certamente le ore di assistenza. Se in Istituto il fisioterapista viene in media per tre ore al giorno, i parenti più prossimi assistono i malati per molte ore consecutive, per non parlare di chi vive questa situazione a casa dove i malati hanno bisogno di assistenza ventiquattro ore al giorno. Quando vengono colpiti uomini dai cinquanta ai cinquantacinque anni, ancora nel pieno della loro vita lavorativa, l’abbandono forzato del lavoro sia per il malato, sia per chi deve accudirlo, provoca povertà economica in famiglie in cui magari ci sono ancora figli piccoli. C’è bisogno di una riflessione sui sistemi di welfare.

Annoso problema …
Negli studi abbiamo notato grandi differenze tra Nord e Sud, ma ogni regione ha la sua pecora nera. Nello stesso territorio regionale registriamo macchie di eccellenza e situazioni di isolamento.

Siete stati invitati a Roma dal ministro della Salute, Renato Balduzzi, per parlare della situazione nazionale. Di cosa discuterete con il governo?
Vorremmo che passasse il concetto che le persone in stato vegetativo o di minima coscienza sono malati con gravissima disabilità e che hanno bisogno di assistenza per se stessi e per le loro famiglie, l'unico modo per farlo è un intervento strutturale.

Sopravvissuta all'aborto ma non a Rai 2

da: La Bussola Quotidiana

Ecco il video della serata su Rai 2








di Patrizia Fermani Opportuno*



Qualche tempo fa è stato pubblicato in rete un video nel quale una giovane donna americana, Gianna Jessen, racconta in pubblico la storia dolorosa e straordinaria della propria nascita.   
Gianna, figlia di una giovane di diciassette anni che ha deciso di abortire, è sopravvissuta miracolosamente all’uccisione in utero per avvelenamento salino alla 32° settimana di gestazione. Nelle sue parole c’è ancora, dopo tanti anni, lo shock di chi ha ingaggiato con la morte una lotta sovrumana, di chi ha poi dovuto continuare a lottare, giorno dopo giorno, con la forza della disperazione e la debolezza di risorse fisiche irrimediabilmente compromesse. Una fatica immane nella solitudine del primitivo abbandono.

Nel video americano tiene la scena da sola, in piedi, davanti ad un pubblico attento e silenzioso, in lei c’è una tensione quasi tangibile che, mentre parla, si trasmette e soggioga chi ascolta. Ognuno può rivivere in sé l’orrore di quella inaudita violenza contro un essere debolissimo e indifeso, l’orrore che solo le azioni umane possono produrre. Ma anche ritrovare la pietas per riconoscersi creatura non indegna, non casualmente  gettata in un universo senza senso.
Gianna è questa creatura, innervata del proprio dolore, ma che parla anche di perdono e di speranza, ha pietà per sé e per gli altri, per l’amore mancato.

Il 6 febbraio, con le migliori aspettative di chi vede nella testimonianza di questa donna un’occasione imperdibile di riflessione per tutta la nostra società, Gianna approda alla tv italiana, su Rai 2, nella fascia di intrattenimento postprandiale.

Ma le aspettative vengono presto deluse. Perché qui, ancora una volta,  la chiacchiera come basso continuo, il panem et circenses,  sono la regola di un potere senza gloria e senza destino. 
E’ invitata a ripetere la sua storia e lei con semplicità la ripercorre, parlando anche della fede che l’ha sostenuta, dell’amore di Gesù Cristo che l’ha salvata e che le dà la forza di guardare avanti con serenità. 

Ma al termine del racconto la commossa presentatrice Bianchetti introduce il parterre di opinioniste che forniranno il contrappunto sociologico alla vicenda.
Infatti, l’emozione e persino il piagnisteo sono raccomandati, ma sempre in funzione di un tracciato di idee che non ammette concessioni alla riflessione spontanea di chi ascolta.
Gianna diventa, in breve, il “prodotto” perfetto per l’emotività a basso costo dell’umanesimo televisivo, condito con il mito euforizzante di chi ce l’ha fatta. La donna ha vinto una scommessa impossibile, è un fenomeno e tanto basti. 

Ora è seduta, stretta come una preda tra i sorrisi compiaciuti e vuoti delle ospiti intente al controllo ideologico della sua esibizione. Le è concesso di parlare solo a comando per il confezionamento dell’esca televisiva, mentre le guardiane domatrici hanno sempre lo sguardo rivolto alla telecamera, attente a filtrare, sviare e confondere il senso irriducibile della sua testimonianza pro life. 
Le tutrici, eleganti e pettinate, devono pure concedere che l’aborto (ma che orrore questa parola! Usiamo interruzione di gravidanza, please) è una cosa rozza, forse anche un po’ efferata, ma solo se fatto all’americana, al settimo mese e soprattutto se praticato a quel modo, con l’avvelenamento salino. Roba da yankees.
In Italia tutt’altra musica: si pratica fino al terzo mese e con il metodo ben più essenziale dello smembramento, tutt’altro stile, altra civiltà!

E poi, visto l’obbligo (peraltro, introdotto anche in America da uno impresentabile come Bush) di rianimare il sopravvissuto, bisogna premiare giustamente chi ce la fa: è passato nel cerchio di fuoco senza ardere, l’ordalia si è compiuta, merita l’impunità. Chi non sopravvive è perché non lo merita, per lui rimane solo il sacco dei rifiuti ospedalieri o lo scarico del bagno di casa.
Però Gianna non si riconosce nell’eccezione statistica medicalmente assistita: la sua vita di sopravvissuta anche al boia designato e andato in ferie è stata difficilissima, ma, ripete, ce l’ha fatta perché è cristiana e la fede l’ha sorretta.
Questo è troppo. Il messaggio sfugge al controllo.

La psicoterapeuta in rosso forse non può tollerare che lo spirito si metta a condizionare i meccanismi monitorizzati della psiche umana, l’irrazionale non abita al San Raffaele. L’esperta rassicura le menti deboli: è accertato che la fede fa bene e favorisce la vitalità cerebrale. Dorma sonni tranquilli il prometeo borghese che si prefigge di sottoporre la natura ad amministrazione controllata.
Meno male che la Fides et Ratio non la legge nessuno, e tantomeno i preti cedono a certe  pericolose tentazioni.

Rimane il fatto, però, che la macelleria abortiva casalinga e ospedalizzata è poco elegante, un po’ sporchetta, allora dobbiamo evitarla a tutti i costi, anche per mettere a tacere quelli che coltivano il pallino dell’aborto come omicidio e hanno pure l’ardire di negare il diritto della Donna.
La soluzione è evitare la gravidanza, preservativi per tutti, sempre e comunque, a gogò.  Ma Gianna, la nostra ospite e testimone, come la penserà? Meglio non chiedere nulla. La facciamo cantare visto che ha fatto tanta strada e Sanremo è vicina. Di quello che è stato detto forse ha capito poco… ma chi se ne frega.

* Movimento Europeo Difesa Vita

mercoledì 8 febbraio 2012

Fine vita: affrontare le questioni di fondo

da: Studia Bioethica (Editoriale)


Le questioni bioetiche di “fine vita” sono senza dubbio tra le più delicate e complesse. Continuamente si arricchisce la letteratura specialistica su temi come il trattamento medico del malato in fase terminale, l’accanimento terapeutico, l’eutanasia, le cure palliative, gli hospices, ecc.

Negli ultimi cinquant’anni i problemi e i dilemmi etici in questo settore della medicina sono diventati sempre più frequenti e complessi. In buona parte a causa degli enormi progressi della medicina che offrono nuove e potenti possibilità di intervento, ma determinano spesso anche il configurarsi di situazioni difficili da gestire, sia dal punto di vista etico, sia da quello medico che da quello semplicemente “umano”.

Ma non si tratta solo di questo, come alcuni autori sembrano pensare. Aveva ragione Richard Neuhaus quando denunciava la tendenza ad affermare che i problemi controversi della bioetica sono sorti a causa dei progressi medici tecnologici, e che così facendo tentiamo di ridurre il nostro senso di responsabilità morale. 

Siamo più vicini alla realtà – diceva – se riconosciamo che i dibattiti in cui siamo immersi sono il prodotto di cambiamenti morali, culturali e politici.

In verità, le questioni di fondo dei problemi attuali sono questioni davvero antiche.

Già Platone, nella sua opera Repubblica,si chiedeva fino a che punto si dovesse far ricorso alla medicina e criticava l’atteggiamento eccessivamente aggressivo e insistente dei medici del suo tempo. Nella tradizione della teologia morale cattolica, poi, c’è un filone lungo e solido di riflessioni sull’obbligo morale di ricorrere ai mezzi necessari per la vita; obbligo che non si impone quando si tratta di quelli che venivano chiamati da diversi autori “mezzi straordinari”.

Non si può ridurre, dunque, tutta la problematica di fine vita a “accanimento terapeutico” sì o no; eutanasia, sì o no. Né la si può restringere agli ambiti ristretti della polemica sulle leggi o sulle procedure mediche da attivare o meno. Si tratta, infatti, di un ambito nel quale sono in gioco i valori più profondi ed importanti della persona umana. Davanti alla malattia in fase terminale, alla sofferenza e all’avvicinarsi della morte, l’essere umano si confronta necessariamente con le domande eterne sul senso della vita, del dolore e della morte. È in gioco, in queste questioni, la nostra comprensione dell’essere umano, del valore della sua vita, del significato che vogliamo dare alle parole “dignità” e “libertà”.

Daniel Callahan lamenta che il dibattito attuale intorno all’eutanasia non affronti quasi mai il problema del significato della morte nella vita umana.Effettivamente, gli autori favorevoli all’eutanasia rarissimamente dedicano qualche pagina ad una riflessione sul significato della morte, o sull’eventuale valore della sofferenza nella propria vita, o semplicemente sul senso della vita stessa. Si potrebbe pensare che una trattazione più o meno attenta dell’eutanasia, in quanto diritto ad una “morte degna”, dovrebbe includere lo sforzo di comprensione dei valori in gioco. E, invece,“silenzio stampa”. Se parlano di morte è per affermare il diritto a procurarla liberamente quando la vita non da più speranze. Se menzionano il termine “dignità” è per spiegare
che certe vite ne sono ormai prive e che l’unica via d’uscita è la morte; se fanno riferimento al dolore e alla sofferenza è per sostenere che nessuno dev’essere costretto a soffrire. Quasi mai un cenno di approfondimento antropologico, di indagine sul senso umano di quelle realtà.

In parte, questo “vuoto” è dovuto ad una grave “lacuna antropologica”. Dietro alla proposta dell’eutanasia c’è quasi sempre una visione della persona umana così vuota e banalizzante da rendere difficile un discorso minimamente articolato. D’altronde, confrontandosi con quelle dimensioni antropologiche si corre il rischio
di intravedere degli spazi di senso anche là dove non si vuole che ci sia, per poter giustificare l’eutanasia. Si corre il rischio di trovare delle ragioni di fondo per la vita anche in situazioni di sofferenza e di inutilità sociale, non riducibili al “per me la dignità consiste nel poter andare al bagno da solo”, di Montanelli.

Noi pensiamo che una tematica così densa e così delicata, esiga la serietà della ricerca antropologica di senso. Perciò stesso, i testi presentati in questo numero vanno aldilà delle questioni meramente tecniche e giuridiche.Dopo aver riflettuto sulle questioni etiche e prima di affrontare alcuni discorsi di carattere legale, apriamo lo sguardo anche verso le tematiche di carattere spirituale e religioso.

Nessuna pretesa di completezza su un tema così vasto. Semplicemente il desiderio di offrire un contributo alla riflessione,anche sulle questioni di fondo.

Gonzalo Miranda, L.C.
Direttore Studia Bioethica

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martedì 7 febbraio 2012

L'INTERRUZIONE VOLONTARIA DI GRAVIDANZA DISTRUGGE LE PERSONE

di Renzo Puccetti (docente alla Facoltà di Bioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum).


Gli aborti crescono con leggi che lo liberalizzano.

ROMA, domenica, 5 febbraio 2012 (ZENIT.org).- Il 19 gennaio è comparsa sull’edizione on line della prestigiosa rivista medica Lancet un articolo volto a fornire le cifre del ricorso all’aborto su base planetaria nel periodo compreso tra il 1995 ed il 2008.

Nell’articolo gli autori formulano la seguente affermazione: “le leggi restrittive sull’aborto non sono associate a tassi di abortività più bassi”1. Non desta sorpresa osservare che la pubblicazione è stata prontamente assunta da numerosi gruppi favorevoli all’aborto per sostenere la necessità di liberalizzare l’interruzione volontaria di gravidanza in ogni nazione.

Alla base della liberalizzazione dell’aborto si pone la teoria del cosiddetto aborto “safe”, l’aborto sicuro, di cui la completa legalizzazione è elemento imprescindibile, benché non esaustivo. Si tratta di iniziative volte a convincere i governi, in particolare di nazioni del sud America, che una eventuale depenalizzazione dell’aborto non può che tradursi in un atto che fa solo del bene, evita alle donne le complicanze da aborto clandestino senza che gli aborti aumentino. Già, dicono così.

Ci si può però domandare se davvero questa lettura sia rispettosa della realtà, o se invece non sia piuttosto una rappresentazione conveniente per una prospettiva molto ideologica.

Un primo elemento di riflessione deriva dagli autori: membri del Guttmacher Institute, che è una formidabile macchina di divulgazione di istanze abortiste, storicamente legata a doppio filo alla più grande catena americana di cliniche per aborti, la Planned Parenthood. Il Guttmacher Institute fa parte di quella che viene chiamata “lobby dell’aborto” e che chiede alle istituzioni internazionali di riconoscere l’interruzione volontaria di gravidanza come parte dei cosiddetti diritti riproduttivi.

Gli autori affermano di avere elaborato i dati a partire da una molteplicità di fonti: studi pubblicati, rapporti occasionali, pareri di esperti. Come da tale zibaldone grezzo si giunga alle stime riportate nello studio è materia oscura, assai distante da quella trasparenza sui metodi seguiti che consente la verificabilità e riproducibilità propri del metodo scientifico galileiano. Non sono infatti a conoscenza di alcun rapporto che spieghi in modo dettagliato, passaggio per passaggio, come ogni dato sia stato statisticamente elaborato. Di una cosa però siamo a conoscenza e riguarda l’enorme grado di variabilità ed incertezza che sottende tutte le metodologie impiegate per stimare gli aborti clandestini.2

Se si vuole avere una prova è sufficiente comparare le rispettabilissime stime del numero degli aborti prima della legalizzazione in alcuni paesi occidentali. Può essere utile rinfrescare la memoria citando alcuni numeri. Per l’Italia Grandolfo e coll. forniscono la cifra di 350.000 aborti prima della legalizzazione,3 mentre Figà Talamanca presenta stime che, sulla base di vari modelli matematici, spaziano da 220.000 a 3.640.000 aborti,4 quando invece il professor Colombo dava come cifra più probabile 100.000 aborti all’anno.5 In Francia L’INED, l’istituto nazionale di statistica, valutava gli aborti prima della legge Veil a 250.000 mentre Thierry Lefevre forniva una forbice di 55.000-90.000.6 Per l’Inghilterra invece si dava la cifra di 100.000 aborti prima dell’abortion act del 19677 quando altre pubblicazioni scientifiche facevano valutazioni comprese tra 15.000 e 31.000 aborti.8

Non si dovrebbe neppure sottovalutare la testimonianza diretta del dottor Nathanson, fondatore del NARAL (National Association for the Repeal of the Abortion Laws), successivamente convertito alla causa pro-life ed al cattolicesimo, che testimonia l’esagerazione degli aborti quale tecnica adottata per creare l’impressione che l’aborto fosse diffusissimo in America al fine di ottenerne la legalizzazione.9

Se quindi dovrebbero risultare chiari limiti e intenti di questo genere di pubblicazioni di cui questo articolo di Lancet è solamente un esempio, resta ancora una considerazione da svolgere e riguarda l’impiego di dati crudi anziché corretti per i numerosi fattori in grado di modificare gli stessi dati. La cosa risulta evidente e sospetta se la confrontiamo con lo zelo posto dal mondo pro-choice (favorevolo all’aborto) nell’impiego di ogni co-fattore possibile al fine di calmierare la maggiore probabilità di problemi psichici da parte delle donne che hanno abortito.

Si sostiene infatti che la causa non risieda nell’aborto in sé, ma in tutta una serie di fattori che predispongono le donne con problemi psichici ad abortire con maggiore probabilità. Ci si chiede così perché gli esperti che hanno pubblicato lo studio su Lancet non abbiano corretto i dati di abortività per i numerosi fattori che notoriamente influiscono sul ricorso all’aborto: reddito, religiosità, fecondità, scolarità, razza, solo per citarne alcuni.

Di una cosa si può essere certi: legalizzare l’aborto significa accettare l’aumento degli aborti. Non è una tesi, è molto più che un’ipotesi, è un dato che è stato dimostrato in Italia,10 così come in Romania11, negli Stati Uniti12 così come in Peru13 e dimostra chiaramente che combattere per leggi restrittive significa combattere per la vita.14
*
1 Sedgh G, Singh S, Shah IH, Ahman E, Henshaw SK, Bankole A. Induced abortion: incidence and trends worldwide from 1995 to 2008. Lancet. 2012 Jan 18.
2 Dossier C. Estimating Induced Abortion Rates: A Review. Studies in Family Planning. 2003; 34(2): 87-102.
3 Grandolfo ME, Pediconi M, Timperi F, Bucciarelli M, Andreozzi S, Spinelli A. Epidemiologia dell’ interruzione volontaria della gravidanza in Italia. Rapporti ISTISAN 06/17. pp. 10-25. http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_837_allegato.pdf
4 Figà Talamanca I. Estimating the incidence of induced abortion in Italy. Genus, 1976;32(1-2):91-107.
5 Colombo B. Sulla diffusione degli aborti illegali in Italia. Medicina & Morale 1976; 1-2: 17-78.
6 INED. Rapport. de l'Institut national d'études démographiques à Monsieur le Ministre des Affaires sociales. Sur la Régulation des Naissances en France. 1966; 4: 645-90; Thierry Lefevre. L’avortement avant la lois Veil. http://www.trdd.org/INEDCPF.HTM
7 Francome C. Estimating the number of illegal abortions. J Biosoc Sci. 1977 Oct;9(4):467-79.
8 Goodhart CB. Estimation of illegal abortions. J Biosoc Sci. 1969 Jul;1(3):235-45.
9 Nathanson B. Confession of an ex-abortionist. http://www.aboutabortions.com/Confess.html
10 Alberto Cazzola. Aborto e fecondità. Gli effetti di breve periodo indotti dall’aborto legale sulle nascite in Italia. Franco Angeli ed. Milano, 1996.
11 Cristian Pop-Eleches. The Impact of an Abortion Ban on Socio-Economic Outcomes of Children: Evidence from Romania. Columbia University, October 2005. http://www.columbia.edu/~cp2124/papers/unwanted_latest.pdf
12 Malcolm Potts, Peter Diggory, John Peel. Abortion. Cambridge University Press. Cambridge, 1977. p. 141.
13 Puccetti R. Incidence of induced abortions in Peru. CMAJ. 2009; 180(11): 1133.
14 New MJ. Analyzing the Effect of Anti-Abortion U.S. State Legislation in the Post-Casey Era. State Politics & Policy Quarterly. 2011; 11: 28-47.

Jerome Lejeune il genetista più odiato dagli abortisti

di Francesco Agnoli da UCCR


Jerome Lejeune. In Italia di questo grande personaggio si sa molto poco. Gli unici quattro libri, a quanto mi consta, li ha pubblicati l’editore Cantagalli (l’ultimo è di Clara Lejenue, sua figlia: “La vita è una sfida”, Cantagalli 2008). Nato nel 1926 a Montrouge sur Seine, Lejeune è colui che ha scoperto la prima anomalia genetica, la cosiddetta trisomia 21, cioè l’anomalia genetica che determina la sindrome di Down, altrimenti detta mongolismo. Sino alla sua scoperta si credeva che il mongolismo fosse una tara razziale, oppure che fosse determinato da genitori alcolisti o sifilitici. Lejeune dimostrò che non vi era nulla di disdicevole, nei genitori di quei bambini, nessuna degenerazione razziale, nessuna contagiosità, in quelle creature in cui era avvenuta la triplicazione di un cromosoma, un eccesso di informazione genetica, e che vengono colpite nella facoltà dell’intelligenza, dell’astrazione, anche se conservano integre affettività e memoria.

Lejeune per questa scoperta, e per altre che la seguirono, ottenne innumerevoli riconoscimenti internazionali, premi ed onorificenze. Divenne un uomo famoso e per lui fu creata la prima cattedra di Genetica Fondamentale presso l’università di medicina di Parigi. Ma Lejeune non era solo un ricercatore, un curioso, uno studioso di segmenti di Dna che nel chiuso del suo laboratorio confonde la vita col codice genetico e che nell’entusiasmo delle sue scoperte crede di avere in pugno la totalità del reale. Il suo intento fu sempre quello di guarire i suoi malati, così socievoli, così allegri, così fanciulleschi. «Se si riuscisse a scoprire come poter curare la trisomia 21», scrive la figlia Clara, «allora sì la strada sarebbe aperta per poter curare ogni altra malattia genetica». Scoprire la prima aberrazione cromosomica è, nella mente di Lejeune, il primo passo per compiere l’opera del medico, che è, da sempre, quella di curare. Così anche la scoperta della diagnosi pre-natale, ad opera dell’amico di Lejeune, il professor Liley, originario della Nuova Zelanda, è collegata al desiderio di poter individuare quanto prima e curare più precocemente i bambini. Curare il prima possibile, in utero: è l’idea che entusiasma entrambi. Ma i due scienziati, che “si conoscono e si stimano”, “impotenti, assisteranno allo snaturamento delle loro scoperte”. Infatti nel 1970 in Francia la proposta di legge “Peyret” apre il dibattito sull’aborto, sull’eliminazione dei bambini che sono identificati come portatori di handicap già prima della nascita. “In quel momento”, ricorda Clara, “l’unico handicap riconosciuto prima della nascita è la trisomia!”. Lejeune, di fronte alla proposta Peyeret e al dibattito sull’aborto in generale, dinanzi alle menzogne sulla natura del feto o sul numero degli aborti clandestini, non riesce a tacere: sostiene la sacralità della vita, palesa il suo amore per i suoi piccoli malati, dinanzi a tutti, ovunque, arrivando ad affermare, all’Onu: “Ecco una istituzione per la salute che si trasforma in istituzione di morte”.

E’ coraggioso, ma non ingenuo: sa di aver intrapreso una strada pericolosa, di procurarsi, in questo modo, innumerevoli antipatie. La sera stessa del suo discorso all’Onu, scrive alla moglie: “Oggi pomeriggio ho perduto il premio Nobel”. Ed è proprio così. Non garba, a coloro che lo insultano, che gli sputano in faccia, a coloro che scrivono sui muri “A morte Lejeune e i suoi mostriciattoli”, che qualcuno rivendichi con carità e con forza la verità, e lo faccia con l’evidenza della scienza. Scrive Lejeune: “La genetica moderna si riassume in questo credo elementare: all’inizio è dato un messaggio, questo messaggio è nella vita, questo messaggio è la vita. Vera e propria perifrasi dell’inizio di un vecchio libro che ben conoscete, tale credo è quello del genetista più materialista possibile…”. In principio è il Logos, al principio della vita è l’informazione del dna, tutta già compresa nella prima cellula: “tutto questo lo sappiamo con una certezza assoluta che vince ogni dubbio perché se tale informazione non fosse già contenuta in essa, non potrebbe entrarvi mai più; nessuna informazione, infatti, entra in un uovo dopo che sia stato fecondato”.

Per stroncare Lejeune le proveranno tutte: l’odio, le persecuzioni, le molestie anche fisiche, i controlli fiscali… Gli verrà negato l’avanzamento di carriera per ben 17 anni, verrà radiato dai congressi scientifici, gli verranno soppressi i crediti per la ricerca e negati i finanziamenti per i suoi pionieristici studi sull’acido folico per le mamme in gravidanza, che tanti bambini hanno contribuito a salvare dalla spina bifida e da altre patologie. Ma per fortuna il suo nome è famoso in tutto il mondo, e può continuare a lavorare grazie a sussidi americani, inglesi, neozelandesi. Il suo pensiero però è sempre fisso sui suoi cari handicappati, perché conosce l’insegnamento di Cristo: “ogni cosa che avrete fatto ad uno di questi piccoli, la avrete fatta a me”. In passato, ricorda Lejeune, i malati di rabbia venivano spesso uccisi e soffocati tra due materassi. Poi, un grande scienziato, Pasteur, liberò l’umanità da quella malattia. Se si sopprimono coloro che sono affetti da sindrome di Down, si bloccherà la ricerca e non si capirà mai come guarirli, come è possibile fare; finché non riusciamo a guarirli, l’importante è stare loro vicini, guardarli come si guarda ad un figlio di Dio, e non solamente ad un errore genetico, a materia biologica vivente!

Lejeune, nonostante varie difficoltà, continua a girare “il mondo, tiene conferenze e torna con riconoscimenti e borse di studio per i suoi collaboratori, finanziamenti per i programmi di ricerca”. Si batte in questi anni per evitare il disastro nucleare, viene inviato in Russia a parlare con Breznev sui rischi di un eventuale uso dell’atomica, e confuta il darwinismo materialista e ideologico di Jacques Monod, che riduce l’uomo ad un figlio del caso. In nome dei suoi studi di genetica Lejeune sostiene la credibilità di Adamo ed Eva e, anticipando di dieci anni le scoperte di Gould ed Eldrege, contrasta il gradualismo step by step di Darwin, sostenendo che l’evoluzione ha dovuto per forza fare dei salti. In ogni cosa, come padre di cinque figli, come scienziato, come polemista contro l’aborto e il darwinismo materialista, ciò che più colpiva, in lui, come rammenta la figlia, era “l’assenza di paura. Non aveva paura. Cosa si può fare contro un uomo che non desidera niente per se stesso?”. Timete Dominum et nihil aliud, diceva, perché solo così si è veramente liberi, solo così si è certi di rinunciare a se stessi e al proprio egoismo, per perseguire con limpidezza la via della Verità e del Bene. Il suo motto poteva così essere quello che D’Annunzio, aveva ripreso e inciso sul muro del suo Vittoriale: “Ho quello che ho donato”. Per questo, alla sua morte, un ragazzo down, Bruno, “con la sicurezza di un predicatore quaresimale, si impadronisce del microfono durante le esequie di Jerome Lejeune a Notre Dame di Parigi. Senza timore, in una cattedrale affollata, improvvisa un panegirico che termina con queste parole: ‘Grazie, mio caro professor Lejeune di quello che hai fatto per mio padre e per mia madre. Grazie a te, sono fiero di me’. Nessun altro oltre a Bruno avrebbe potuto dire parole simili. Più tardi veniamo a sapere che egli è il bambino il cui esame dei cromosomi, trentacinque anni prima, ha permesso a Lejeune di scoprire la trisomia 21” ( Jean-Marie Le Méné, “Il professor Lejeune, fondatore della genetica moderna”, Cantagalli, Siena, 2008, p. 178)

Tutta la battaglia di Lejeune è dunque quella di un credente e di uno scienziato che in un’epoca in cui si fa fatica a riconoscere la dignità dell’uomo, il suo essere ad immagine e somiglianza di Dio, difende questo principio, con la sua umanità e la sua scienza, e urla al mondo che persino gli handicappati sono uomini! La sua, scrive Jean Marie Le Méné, è la stessa battaglia degli abolizionisti americani che di fronte alla schiavitù affermavano: a man is a man. Un uomo è un uomo. Negli stessi anni in cui Francis Crick dichiara che “nessun bambino dovrebbe essere definito come essere umano prima di essere stato sottoposto a un test che ne determini il corredo genetico. Se non supera il test, si è giocato il diritto alla vita”, Lejeune ribadisce: Ogni uomo è un uomo.

E’ un feto, lo abortiamo? E’ un uomo. E’ malato? E’ un uomo. Fabbrichiamo un embrione in vitro? E’ un uomo. Lo congeliamo? E’ un uomo. Lo vivisezioniamo sino al quattordicesimo giorno? E’ un uomo. Lo produciamo in un utero artificiale, o in affitto? E’ un uomo. Lo cloniamo? E’ un uomo.  Lo priviamo di suo padre e di sua madre, con l’adozione a persone dello stesso sesso? E’ un uomo (Jean-Marie Le Méné, “Il professor Lejeune, fondatore della genetica moderna”, Cantagalli, Siena, 2008, p. 19)

domenica 5 febbraio 2012

Benedetto XVI all’Angelus per la Giornata per la Vita: la fede nell’amore di Dio è la vera risposta per sconfiggere il male

da: Radio Vaticana


La vera giovinezza è nel servizio alla vita e la fede nell’amore di Dio è la vera risposta per sconfiggere il male. Così il Papa all’Angelus nell’odierna Giornata per la Vita e in vista della prossima Giornata mondiale del malato.

Gesù che guarisce i malati. Ispirato dal Vangelo domenicale, Benedetto XVI si è soffermato sulla condizione dell’essere malati, “una condizione tipicamente umana, in cui sperimentiamo fortemente che non siamo autosufficienti, ma abbiamo bisogno degli altri”.

“In questo senso potremmo dire, con un paradosso, che la malattia può essere un momento salutare in cui si può sperimentare l’attenzione degli altri e donare attenzione agli altri!” 

Tuttavia, la malattia "è pur sempre una prova, - ha aggiunto il Papa - che può diventare anche lunga e difficile”. 

Quando la guarigione non arriva e le sofferenze si prolungano, possiamo rimanere come schiacciati, isolati, e allora la nostra esistenza si deprime. 

“Come dobbiamo reagire a questo attacco del Male? Certamente con le cure appropriate” ma “c’è un atteggiamento decisivo e di fondo – ha sottolineato il Santo Padre - con cui affrontare la malattia ed è quello della fede.” “Ma fede in che cosa? Nell’amore di Dio”.

Ecco la vera risposta, che sconfigge radicalmente il Male. Come Gesù ha affrontato il Maligno con la forza dell’amore che gli veniva dal Padre, così anche noi possiamo affrontare e vincere la prova della malattia tenendo il cuore immerso nell’amore di Dio.

“Tutti conosciamo – ha detto il Papa – persone che hanno sopportano sofferenze terribili perché Dio dava loro una serenità profonda”, cosi come la beata Chiara Badano, stroncata nel fiore della giovinezza, capace di donare lei agli altri “luce e fiducia”. Ma “tuttavia, nella malattia, abbiamo tutti bisogno di calore umano” 

“…per confortare una persona malata, più che le parole, conta la vicinanza serena e sincera”.

Quindi in vista della Giornata mondiale del malato, sabato prossimo 11 febbraio l’invocazione a Maria, “specialmente per le situazioni di maggiore sofferenza e abbandono”. 

Nel dopo Angelus Benedetto XVI ha reso omaggio all’odierna Giornata per la Vita, “iniziata – ha ricordato - per difendere ala vita nascente e poi estesa a tutte le fasi e le condizioni dell’esistenza umana”. Il tema di quest’anno: “Giovani aperti alla vita”

“Mi associo ai Pastori della Chiesa in Italia nell’affermare che la vera giovinezza si realizza nell’accoglienza, nell’amore e nel servizio alla vita”. 

Si è infine rallegrato il Papa dell’incontro promosso ieri a Roma dalle Scuole di Ostetricia e Ginecologia delle Università romane per riflettere sulla “Promozione e tutela della vita umana nascente”. E, un saluto particolare è andato a mons. Mons. Lorenzo Leuzzi, ai docenti e ai giovani e a tutti i fedeli presenti in piazza San Pietro nonostante il freddo.

"E' bella la neve, ma speriamo che presto venga la primavera. Auguri e buona domenica!"

MARCIA PER LA VITA: 12 e 13 Maggio 2012

L’iniziativa
Sabato e Domenica 12 e 13 maggio 2012 a Roma


Gli attacchi alla vita umana innocente sono sempre più numerosi e nuovi strumenti di morte minacciano la sopravvivenza stessa del genere umano: Ru486, Ellaone, pillola del giorno dopo ecc. Da oltre trent’anni una legge dello Stato (la 194/1978) regolamenta l’uccisione deliberata dell’innocente nel grembo materno e i morti si contano a milioni. La marcia per la vita è il segno dell’esistenza di un popolo che non si arrende e vuole far prevalere i diritti di chi non ha voce sulla logica dell’utilitarismo e dell’individualismo esasperato, sulla legge del più forte.

L’iniziativa vuole:

  • affermare che la vita è un dono, indisponibile, di Dio;
  • chiedere il Suo aiuto, per una società smarrita;
  • deplorare l’iniqua legge 194 che ha legalizzato l’uccisione, sino ad oggi, in Italia, di 5 milioni di innocenti;
  • ribadire che esiste una distinzione tra Bene e male, tra Vero e falso, tra Giusto ed ingiusto;
  • invitare alla mobilitazione i cattolici e gli uomini di buona volontà.

Lo straordinario successo della prima edizione della marcia per la vita di Desenzano, organizzata in breve tempo e con poche risorse a disposizione, ci spinge a moltiplicare le forze e l’impegno profusi per la buona battaglia.

La seconda edizione della marcia sarà a Roma, centro della cristianità e del potere politico. Le strade della capitale sono state attraversate, anche recentemente, da numerosi cortei indecorosi e blasfemi; il nostro corteo vuole invece affermare il valore universale del diritto alla vita e il primato del bene comune sul male e sull’egoismo.

L’iniziativa sarà una “marcia” e non una processione religiosa e come tale aperta anche ai pro life non credenti e a tutti i gruppi che potranno partecipare con i loro simboli ad esclusione di quelli politici.

E’ previsto inoltre un convegno, sempre a Roma, il 12 maggio, sulla vita a cui hanno già dato la loro adesione personalità conosciute del mondo pro life italiano.

Abbiamo però bisogno dell’aiuto di tutti!

-  Con la preghiera, che smuove le montagne (1 Cor. 13,2) e vince ogni difficoltà

-  Con la costituzione, in ogni città italiana, di centri locali che ci aiutino sul piano organizzativo (fotocopiando e diffondendo materiale, organizzando pullman per venire a Roma, preparando striscioni, bandiere, cartelli…)

-  Con il sostegno economico che può moltiplicare le nostre possibilità. Si può versare un contributo sul conto corrente postale allegato oppure tramite bonifico bancario a:

Associazione Famiglia Domani:
Banca:Intesa San Paolo,
Iban: IT 86 N  03069  03227   100000000810
Mevd (Movimento Europeo Difesa Vita):
Unicredit, Agenzia di Verona,
Iban: IT 31 R  02008  11796   000101130378


Sabato 12 maggio
ore 15:30 – 19:00: Convegno presso il Pontificio Ateneo Regina Apostolorum
ore 21:00: Adorazione Eucaristica in riparazione per il crimine dell’aborto

Domenica 13 maggio
ore 8:30: ritrovo al Colosseo
ore 9:30: partenza della marcia
ore 11:30: arrivo a Castel Sant’Angelo

per aderire alla Marcia clicca su: Aderisci alla Marcia

per visionare le adesioni alla Marcia clicca su: Adesioni Italia Adesioni Estero


Chiunque volesse aiutare e per qualsiasi informazione scrivere a:
scienza.vita.latina@gmail.com 
info@marciaperlavita.it  oppure telefonare a : 06-3233370