Questo Blog nasce con l'intento di promuovere e difendere il diritto alla vita di ogni essere umano dal concepimento alla morte naturale, come fondamento di tutti i diritti umani e quindi della democrazia e, già ampiamente, di dibattere i temi della ricerca scientifica per quanto attiene alle ricadute sulla vita dell’uomo e della società.



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lunedì 18 gennaio 2010

Il relativismo colpisce ancora

di Renzo Puccetti


ROMA, domenica, 17 gennaio 2010 (ZENIT.org).- La cronaca di questo inizio 2010 offre abbondante materiale per una riflessione bioetica sul senso e la percezione della dignità umana. L'11 gennaio veniva comunicata la decisione del giudice per le indagini preliminari di archiviare il procedimento di accusa per omicidio volontario rivolto al medico che ha diretto l'intervento di disidratazione di Eluana Englaro; insieme al medico erano prosciolti dall'accusa di concorso in omicidio l'intera équipe che aveva partecipato all'esecuzione del protocollo. Secondo il giudice, «La prosecuzione dei trattamenti di sostegno vitale di Eluana Englaro non era legittima in quanto contrastante con la volontà espressa dai legali rappresentanti della paziente, nel ricorrere dei presupposti in cui tale volontà può essere espressa per conto dell'incapace».

Il 12 gennaio i media riportavano la denuncia del padre di una bambina affetta da sindrome di Down recapitata al quotidiano locale di Treviso. Un avventore, disturbato dal gioco della bambina, avrebbe detto a voce alta: "Quando si hanno dei figli mongoli è meglio restarsene a casa".

Il 14 gennaio dai giornali si apprendeva che un magistrato in servizio a Salerno aveva autorizzato una coppia fertile e portatrice di una grave patologia degenerativa muscolare a ricorrere alla fecondazione artificiale e alla selezione dei figli allo stato embrionale mediante la tecnica della diagnosi pre-impianto. Secondo il giudice autore del provvedimento, «Il diritto a procreare verrebbe leso da un'interpretazione delle norme che impedissero il ricorso alle tecniche di procreazione assistita da parte di coppie, pur non infertili o sterili, che rischiano concretamente di procreare figli affetti da gravi malattie, a causa di patologie geneticamente trasmissibili. Solo la PMA attraverso la diagnosi preimpianto, e quindi l'impianto solo degli embrioni sani, mediante una lettura 'costituzionalmente' orientata dell'artico 13 della legge citata, consentono di scongiurare tale simile rischio».

Si tratta di tre episodi che, seppure connotati da differenze e specificità evidenti, presentano un sottile filo che li unisce: la negazione della dignità dell'essere umano debole e debolissimo. Vediamo di chiarire il concetto.

Il caso di Eluana Englaro è ben noto. L'ultimo capitolo della saga giunge dal versante della giustizia penale ed afferma che la prosecuzione dei trattamenti di sostegno vitale era illegittima. Non si vuole qui considerare la perplessità che sorge dalla percezione di subalternità del giudizio penale nei confronti del precedente giudizio civile, né dalla preoccupazione che, sulla base del decreto del GIP, si potrebbe paradossalmente immaginare una condotta "illegittima" di quei medici che per lunghi anni (ed anche dopo il decreto della corte di appello civile di Milano) hanno operato somministrando i trattamenti di sostegno vitale alla paziente. No, qui quello che interessa è considerare come alla base dell'azione di colui che ha promosso l'iter procedurale che si è concluso con la morte della ragazza vi fosse, oltre alla rivendicazione di un diritto all'auto-determinazione delegata, l'attribuzione di mancanza di dignità nella condizione di vita di Eluana Englaro e nel modo stesso di assisterla.[1] La stessa Corte di Cassazione nel dispositivo sul caso Englaro ha citato la parola "dignità" per undici volte, affermando sì la piena dignità della persona in stato vegetativo, ma al contempo sancendo il principio che la sottrazione della vita con attributi soggettivi di indegnità è un diritto esigibile. Il riferirsi in tali casi al diritto alla libertà di cura rivela la propria natura di mero espediente. Molti commentatori internazionali infatti, peraltro non riconducibili alla morale cattolica, sostengono che l'interruzione dell'idratazione e nutrizione assistita nei pazienti in stato vegetativo può essere esclusa dagli atti eutanasici solo ricorrendo a sofismi, [2];[3];[4] dal momento che l'unico fine che si intende raggiungere con una tale condotta è la morte della persona assistita.

Nel caso della bambina affetta da sindrome di Down, è successo che un signore si è sentito disturbato da quella bambina ammalata nel suo diritto a condurre in condizioni di benessere la sua giornata. Il concetto di salute accreditato presso le istituzioni sanitarie mondiali sin dal 1948 (è stato ricordato altre volte in questa rubrica) secondo cui la salute non è la semplice assenza di malattia, ma uno "stato di completo benessere fisico, mentale e sociale", col suo grado di espansione indefinita, consente di identificare come una minaccia alla salute qualsiasi turbativa anche solo potenziale. La quasi totalità degli aborti nelle Nazioni occidentali viene autorizzata legalmente sulla base di un diritto alla tutela della salute da parte della donna. Quasi sempre si tratta di una minaccia alla salute psichica della madre, già di per sé più difficilmente obiettivabile, ma i cui contorni sono divenuti del tutto indefiniti quando si è proceduto a recepire in modo automatico, formale e passivo quanto attestato dalla donna stessa a cui in fin dei conti è stato demandata ogni decisione attraverso una sorta di autocertificazione. Qualche numero può aiutare a comprendere le dimensioni del fenomeno. In Inghilterra e Galles, nel periodo 2007-8 dei 1843 casi di sindrome di Down ne sono stati diagnosticati prima della nascita 1112. Di questi solo il 4,8% è stato fatto nascere, perché 92,8% è stato abortito in modo volontario.[5] In Italia dati qualitativamente equivalenti si possono ricavare dalla Toscana, una regione dove la diagnostica prenatale è molto diffusa. Nel 2007 sono nati 15 bambini affetti da sindrome di Down, mentre 26 (pari al 66%) sono stati abortiti. Il numero non è riportato, ma è verosimile che, come in Inghilterra, i bambini che sono nati siano in gran parte sfuggiti alla diagnosi prenatale. Queste procedure non solo vengono tollerate, ma, in nome del diritto alla salute, sono finanziate direttamente dallo stato e promosse sui media e nei consessi sovranazionali quali fondamentale diritto umano, il cui accesso deve essere garantito a tutti. Essendo persona semplice, qualcuno mi dovrebbe spiegare perché la madre può sopprimere il figlio per tutelare il proprio "stato di completo benessere fisico, mentale e sociale", mentre l'avventore del locale, che non ha certamente maggiori obblighi, non potrebbe fare le proprie rimostranze se percepisce la propria "salute", così intesa, deteriorata. Si tratta di un discorso evidentemente e volutamente paradossale; ogni lettore avrà ben capito che chi scrive è completamente dalla parte della bambina e dei suoi genitori, ma l'esserlo presuppone il riconoscimento previo della dignità inalienabile ed incondizionata di quella bambina proprio in quanto essere umano, il riconoscimento della dignità e con esso al diritto alla vita di ogni essere umano, a prescindere da qualsiasi attributo. Come osserva il prof. Pessina, l'umanità è la comune stoffa di cui tutti siamo fatti. La condanna morale del comportamento del greve avventore del locale, l'indignazione per quella frase riprovevole reclamano quale pre-condizione il riconoscimento di un'oggettività morale negata dal relativismo etico. Come scrive il senatore Pera, a causa della sospensione del giudizio, se vuole essere coerente "il relativista o diventa muto o alza le mani".[6]

Si giunge così al caso della coppia portatrice di una forma molto grave di distrofia muscolare (con sopravvivenza nei casi di malattia non superiore ad un anno di vita), che si legge, dopo avere avuto un figlio concepito naturalmente, nato sano ed attualmente in perfetta salute e tre figli diagnosticati prima della nascita essere affetti dalla malattia e quindi abortiti, si è rivolta al giudice per essere autorizzata a sottoporsi ad una procedura di fecondazione artificiale prevedendo la selezione degli embrioni sani (ed ovviamente la eliminazione di quelli malati). Di nuovo non interessa qui esprimere lo sdegno per comportamenti che rendono manifesta la massima hobbesiana "non veritas, sed auctoritas facit legem", non si vuole sottolineare la gravità di decisioni assunte da chi, pur chiamato a rispettare e servire la legge, nel silenzio di tanti prezzolati difensori delle istituzioni e della legalità, interpreta la legge in senso contrario allo spirito ed alla lettera della legge senza neppure sentire il dovere di rimettere la questione agli organi competenti. No, di nuovo queste considerazioni su fatti pur gravissimi non è quanto voglio evidenziare in questo intervento. Piuttosto mi preme sottolineare come la cultura che discrimina il malato, in collaborazione con le possibilità offerte dalla tecnica, stia marciando trionfalmente verso l'eliminazione dell'indesiderato inerme. Pur nella umana solidarietà per la sofferenza indubbia dei genitori, si è in dovere di affermare la verità, affrancandola dalla cortina dell'intenzione, liberandola dal giogo delle circostanze (chi non desidererebbe per tutti i genitori figli in perfetta salute?) mostrando l'oggetto morale dell'azione, andando al cuore della questione rispondendo alla domanda: "Che cosa fai?". La risposta è in re ipsa, la selezione di esseri umani viventi sulla base della loro salute fisica e la loro eliminazione in caso di inadeguatezza ad uno standard fissato. Questa deriva ius-positivista è quanto il relativismo etico sta mettendo nel piatto dell'uomo del terzo millennio. Se "questo è vero e questo è falso, questo è bene e questo è male" sono cose che non si possono più dire, allora la violazione della massima aurea (non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te) e dell'imperativo morale kantiano (agisci in modo da trattare sempre l'umanità, così nella tua persona come nella persona di ogni altro, sempre come un fine, e mai come un mezzo) non sosterranno più la civiltà occidentale, non potranno essere più invocati dal debole; che il lupo abbia il ventre sazio sarà allora la sua unica speranza.

Ci si attende da quanti percepiscono il baratro sempre più prossimo e sopportano il pesante onere della responsabilità qualcosa di più che non qualche accorata dichiarazione di denuncia.



[1] Cfr. Istanza del tutore, Tribunale di Lecco, 18.1.1999

[2] McLean SAM. Legal and ethical aspects of the vegetative state. J Cin Pathol 1999; 52: 490-3.

[3] Paul J. Withholding food and fluids is justifiable only for terminally ill. BMJ 1999;318:1415.

[4] Cameron-Perry JE. Withholding food and fluids is justifiable only for terminally ill. BMJ 1999;318:1415. http://www.bmj.com/cgi/eletters/318/7195/1415#3253

[5] Morris JK, Alberman E. Trends in Down's syndrome live births and antenatal diagnoses in England and Wales from 1989 to 2008: analysis of data from the National Down Syndrome Cytogenetic Register. BMJ. 2009; 339: b3794.

[6] M. Pera. Perché dobbiamo dirci cristiani. Ed. Mondatori, Milano, 2008. p. 114.

domenica 17 gennaio 2010

Dallapiccola: “Nessuna falsa illusione per le coppie che cercano un figlio”

di Manuela Bernabei e Antonello Cavallotto - Il Giornale di Bioetica


E’ una delle questioni più delicate che infiammano i dibattiti fra scienziati, laici e cattolici. Stiamo parlando della diagnosi genetica preimpianto (Pgd). Per capirne di più ed affrontare gli aspetti etici, scientifici e culturali della Pgd, abbiamo intervistato il professore Bruno Dallapiccola (nella foto), che ha dedicato la maggior parte della sua vita professionale allo studio della genetica, ed alla cura delle malattie rare.

Domanda: Professore, lei è anche presidente dell’Istituto CSS-Mendel, centro d’eccellenza nella diagnosi e nella prevenzione delle malattie genetiche rare, ci può dire a che punto è la ricerca in questo settore ?

Risposta: La ricerca sta facendo degli enormi passi in avanti in questo settore, raggiungendo dei risultati straordinari. Dall’’istituto Mendel, in particolare, nel 2009 sono uscite più di 60 pubblicazioni internazionali di notevole interesse, fra cui l’identificazione di nuovi geni, potenziali target per la cura delle malattie genetiche.

D: La genetica molecolare ci sta portando a scenari e prospettive inimmaginabili. Un’applicazione in campo medico è l’identificazione dei portatori di geni mutati patogeni. Allora non possiamo non chiederle la sua opinione sulla diagnosi pre-impianto…

R: La Pgd rappresenta una metodologia complementare alle tecniche di diagnosi prenatale, che permette di identificare la presenza di malattie genetiche o di alterazioni cromosomiche in embrioni generati in vitro, in fasi molto precoci di sviluppo, prima del loro impianto in utero. Si tratta di una procedura che mira a selezionare gli ovociti in cui non sia presente l’anomalia genetica (di cui il partner femminile della coppia è portatore) in modo da produrre solo embrioni sani. I pazienti che richiedono l’accesso alle tecniche di diagnosi pre-impianto iniziano un trattamento di procreazione medicalmente assistita (Pma), che permette il recupero di ovociti da fertilizzare con gli spermatozoi paterni. Una volta che si è ottenuta la fertilizzazione, dagli embrioni ai primi stadi di sviluppo si prelevano una o due cellule (blastomeri) il cui Dna viene analizzato in maniera specifica, in relazione al tipo di malattia genetica da diagnosticare. Gli embrioni che risulteranno non affetti dalla patologia genetica, si trasferiranno in utero per ottenere una gravidanza senza la specifica malattia. Credo sia necessario fare delle considerazioni. Per prima cosa bisogna dire che questo tipo di diagnosi non deve essere la prima scelta di una coppia fertile. Non tutte le coppie devono ricorrere ad un’analisi di questo tipo ma, eventualmente, solo quelle coppie ad elevato rischio riproduttivo e qualora vi siano casi in famiglia di malattie genetiche e cromosomiche trasmissibili. Sto parlando di un’analisi mirata e non fatta a tappeto sulla popolazione, questo nell’interesse e nella tutela della donna. La Pgd, inoltre, abbassa notevolmente la possibilità di portare a termine una gravidanza e non ha un’elevata accuratezza della diagnosi: il rischio di errore si attesta intorno al 30%.

D: Quali sono le differenze fra la diagnosi genetica pre-impianto (Pgd) e la diagnosi genetica pre-concepimento (Pcdg)?

R: La Pgd prende in esame l’embrione generato in vitro, in fasi molto precoci di sviluppo. La Pcgd, invece, viene eseguita sull’ovocita prima del concepimento e non sull’embrione. Con la diagnosi pre-concepimento, a differenza della Pgd, si esclude a priori la possibilità di produrre embrioni con anomalie genetiche. La Pcgd prende in esame il primo globulo polare (1PB), una piccola cellula che possiede un assetto genetico speculare a quello dell’ovocita, per cui se il 1 PB presenta la mutazione materna ne consegue che l’ovocita risulterà privo della mutazione e quindi normale. Viceversa se 1 PB non presenta la mutazione materna sarà l’ovocita a mantenere quella mutazione: in tal caso si scarterà quell’ovocita e si procederà ad utilizzarne un altro per la fecondazione tramite Icsi (iniezione dello sperma direttamente nell’ovulo).

D: Quali sono i limiti della diagnosi genetica pre-concepimento ?

R: L’analisi genetica in questo caso consente di ottenere solo informazioni relative ad anomalie di origine femminile, quindi inapplicabili in caso di malattie genetiche autosomiche dominanti, ed in quelle di natura cromosomica di origine maschile. Con questo tipo di tecnica i tempi da osservare sono strettissimi; per questo motivo l’applicazione della tecnica segue uno schema articolato che richiede una stretta coordinazione tra diverse equipe, cosa non sempre possibile. Inoltre, si tratta di una tecnica prona ad errori, per cui spesso alla Pcgd devono necessariamente seguire altre analisi di diagnostica sul 2 globulo polare e poi sull’embrione.

D: Il rischio relativo di malformazioni nei concepiti con Pgd è +30% - 40% rispetto alle coppie che hanno seguito la via naturale: è vero?

R: Sì, il rischio relativo è aumentato. Il problema riguarda chiaramente i geni di origine materna e paterna. Una causa è senz’altro la superovulazione (dovuta agli ormoni) ed alle ore necessarie per il concepimento che non sono naturali. Bisogna capire che il concepimento in vitro non è altro che espressione di un accanimento riproduttivo. Un uomo che naturalmente produce pochi spermatozoi spesso li produce di bassa qualità. Non dimentichiamoci che lo spermatozoo deve subire un meccanismo importantissimo di maturazione non solo morfologica, ma anche funzionale. Ancora non si è capito che la natura ha i suoi tempi e che questi devono essere rispettati.

D: Professore, in Italia esiste una certificazione che attesti la qualità dei laboratori e l’accuratezza delle diagnosi?

R: Sì, ci sono diverse certificazioni internazionali a riguardo. Il problema è che in Italia meno del 30% dei laboratori che fanno diagnosi genetica possiedono questo tipo di certificazione. In Europa meno del 20% dei laboratori hanno una certificazione, e spesso le strutture che offrono l’inseminazione artificiale non seguono la donna immediatamente dopo la terapia. Questo è un fatto gravissimo. E’ necessario che si abbia un’informazione corretta e completa sulla struttura a cui si decide di appoggiarsi ed è necessario un più rigoroso controllo dei centri diagnostici da parte delle strutture competenti. L’unica vittima di questo sistema malato è, e rimane, la donna.

D: Secondo lei c’è un’informazione scientificamente corretta rispetto al mondo della diagnosi genetica predittiva?

R: Purtroppo la maggior parte delle volte no. Manca l’onestà intellettuale e scientifica nel dire dove siamo in grado di arrivare e dove non riusciamo ad arrivare. Sono stati fatti tanti passi in avanti, ma tanti ancora se ne devono fare. Oggi non siamo in grado di spiegare tante cose, né di prevederne altre. Spesso si spacciano per rivoluzioni scientifiche test che non hanno alcun valore predittivo, ovviamente al solo scopo commerciale. Bisogna stare attenti. Ritengo che questo sia un messaggio importantissimo: non dobbiamo mai offrire false illusioni.

D: La Pgd e, più in generale, il mondo della diagnosi predittiva, possono generare dei problemi di ordine morale, religioso e psicologico all’interno della coppia?

R: Certamente. Ogni persona ha un proprio “imprinting”. C’è chi crede che la prima cellula dello zigote racchiuda in sé un progetto misterioso, che sia un programma unico ed irripetibile, e chi no. Io personalmente ci credo. In questi casi bisogna fare i conti con se stessi, con le proprie idee. Non dimentichiamoci, inoltre, che in noi c’è un continuo sviluppo anche dopo la nascita. Questo ci dice quanto sia affascinante la vita e quanto sia complesso, e misterioso, il progetto che la determina: un’incredibile e finissima regolazione di geni che si regolano e si determinano fra loro, e con l’ambiente che ci circonda.

D: Si può parlare di selezione eugenetica dell’embrione? C’è un rischio reale di fobia verso l’handicap?

R: Bisogna capire se si parla di eugenetica intesa come bene della genetica, o di eugenetica intesa come selezione. Vorrei solo dire che tutti noi siamo geneticamente imperfetti.

E’ bene ricordarlo in questa società troppo superficiale che ci vuole tutti uguali e semplicemente perfetti. Io credo che ci debba essere un limite, e questo limite deve essere dato da un’autolimitazione. E’ necessario vigilare laddove la ricerca rischia di distruggere la vita e l’uomo.

D: Professore, un’ultima domanda sulla “behaviour genetics”. Recentemente, una sentenza della Corte d’Appello di Trieste ha ridotto di un terzo la pena ad un reo-confesso omicida, perché si è documentata la presenza di “geni”, nel patrimonio cromosomico dell’imputato, responsabili della sua aggressività. E’ un’ipotesi surreale immaginare, in un prossimo futuro, la creazione di un test predittivo che ci dirà se il feto, nel grembo materno, potrà diventare un adulto pericoloso?

R: La verità è che spesso ciò che manca sono le competenze scientifiche. Noi oggi conosciamo una minima parte delle potenziali variazioni del nostro genoma. Inoltre, la suscettibilità che è possibile rilevare è spesso controbilanciata dall’interazione con l’ambiente. L’ambiente, e tutta la fitta rete d’interazioni che ci circonda, è qualcosa di potentissimo che si riflette su di noi, e sul nostro modo di essere ed agire. Basti pensare all’anzianità: la vita media si è allungata ma non è cambiato il nostro genoma, quello che è cambiato è l’ambiente che ci circonda. Forse, allora, si dovrebbe prestare maggiore attenzione allo stile di vita, piuttosto che ai geni di un individuo, anche perché, ad oggi, non ci sono le basi scientifiche per dimostrare un condizionamento genetico rispetto ad un reato commesso.

mercoledì 13 gennaio 2010

«Su Eluana mancavano certezze scientifiche»

il neurologo Laureys: l’autopsia non fuga i dubbi

di Pino Ciociola - Avvenire



Sono sicuro di poter sostenere con forza un'unica cosa: di assoluta assenza di sofferenza si può parlare esclusivamente in pazienti anencefalici, cioè che non hanno più la corteccia cerebrale», e non era il caso di Eluana Englaro: Steven Laureys dirige il "Coma Science Group", conduce da molti anni ricerche sui criteri diagnostici più efficaci per determinare le percezioni nei pazienti in coma, in stato vegetativo e in minima coscienza ed è, probabilmente, il più autorevole scienziato mondiale su questi temi.

Ha letto l'autopsia fatta su Eluana. Nella quale ad esempio si certifica che il suo cervello «pesava 1.100 grammi» ed era «normoconformato», cioè assolutamente normale come massa e peso rispetto al corpo di Eluana, che era alta 171 centimetri e pesava (al momento della morte) 53 chili e mezzo. Corpo sul quale «non si evidenziano decubiti». E tanto altro.


Sebbene attraverso un'analisi post mortem, professor Lauryes, si può stabilire adesso se Eluana fosse in uno stato vegetativo persistente o in quello di coscienza minima?

No. Sulla base delle nostre conoscenze, gli esami post mortem non consentono di distinguere tra uno stato vegetativo e uno di minima coscienza. Lo stato vegetativo e quello di coscienza minima sono comunque diagnosticati a livello clinico.

A Eluana restava almeno una flebile possibilità di riacquistare parte della sua coscienza?

Al momento sappiamo che le possibilità di "recupero" dopo dodici mesi in stato vegetativo post-traumatico sono vicine allo zero, mentre per gli stati di coscienza minima non abbiamo criteri temporali per l'irreversibilità. Sappiamo soltanto che le possibilità di recupero in uno stato di coscienza minima sono maggiori che per lo stato vegetativo.

A quali accertamenti avrebbe dovuto essere sottoposta Eluana - in vita - per una corretta diagnosi del suo quadro clinico?

Come abbiamo recentemente dimostrato (con la pubblicazione sull'autorevole rivista di neurologia Bmc neurology 2009, ndr), valutazioni comportamentali, ripetute attraverso scale standardizzate e testate, la "Coma recovery scale", consentono di avere diagnosi più precise rispetto a quelle ottenute attraverso scale di valutazione non standardizzate. Alle tecniche di neuro-immagine si sta attualmente riconoscendo un ruolo importante, ma al momento non sono indicate come obbligatorie dalle linee guida.

Sarebbe a dire?

Secondo il mio punto di vista, come abbiamo anche più volte pubblicato, usando "protocolli pilota le misurazioni oggettive della funzione cerebrale possono aiutare a confermare la diagnosi clinica, come nel caso della morte cerebrale. Infatti, insieme alla ripetizione dei controlli complementari, aiutano a prendere decisioni difficili sulla prosecuzione di un trattamento o meno.

Il cervello di una persona in stato vegetativo presenta massa e peso minori?

Sì, basta leggere quanto pubblicò già nel 2005 Graham [The boundaries of consciousness. Laureys editor, 2005 Elsevier) nella collana scientifica internazionale Progress in brain research che si occupa specificamente delle ricerche sul cervello.

Come si capisce con certezza se una persona in stato vegetativo è in grado di deglutire o meno? Ed è possibile farlo attraverso un'autopsia?

Questo di nuovo è un segno clinico che preferirei diagnosticare pre-mortem.

Si può dire con certezza che Eluana non provasse alcun dolore?

Se Eluana si fosse trovata in stato vegetativo considererei molto improbabile che avesse una percezione cosciente del dolore. Al contrario, qualora il suo fosse stato uno stato di coscienza minima sono sicuro che avrebbe sentito dolore e avrebbe sofferto. Avrebbe conservato un certo livello di emozioni.

A proposito, professor Lauryes: è possibile certificare che le persone in stato vegetativo non provino emozioni?

Al momento, studi di neuro-immagine funzionale su gruppi di pazienti in stato vegetativo mostrano attivazione cerebrale che la maggior parte della comunità scientifica ritiene insufficiente per avere una percezione cosciente del dolore. Tuttavia mi sento di poter sostenere con forza un'unica cosa: di assoluta assenza di sofferenza si può parlare esclusivamente in pazienti anencefalici, che cioè non hanno più la corteccia cerebrale.

L’autodeterminazione assoluta? Non esiste.

di G.San. – Avvenire
Difesa costituzionale della vita dalla pretesa dell’autodeterminazione senza limiti. E valorizzazione del ruolo del medico – in alleanza con il paziente – senza alcun vincolo ad attuare ciò che il Codice deontologico non prevede. Questi i temi della tavola rotonda di Scienza & Vita, moderata dal portavoce Domenico Delle Foglie, il quale ha rivendicato il carattere «laico e popolare» delle proposte associative.

C’è una «potente scollatura che la ragione giuridica vive di fronte alla realtà», ha evidenziato la costituzionalista della Statale di Milano Lorenza Violini. Per la studiosa, della parola «giurisprudenza» si tende sempre più a sottolineare l’aspetto tecnico, lo «iuris», mentre viene «accantonata la prudentia». Paola Ricci Sindoni, docente di Filosofia morale all’Università di Messina, parte dalle tre visioni della salute che stanno alla base della sintesi prodotta dall’articolo 32 della Costituzione: liberale, socialista e personalista cristiana. Si assiste da parte di un «antropocentrismo liberticida» al tentativo di mutare il quadro: la libertà «è declinata come diritto ad avere diritti, e la salute viene vista come bene privato e non più sociale».

La «deriva in atto», ha sostenuto il neurologo di Udine Gianluigi Gigli, distingue vita biologica e vita buona, con il legale rappresentante che ha il diritto di dire quando è degna di essere vissuta». Trasparente il riferimento al caso Englaro, nel quale Gigli è stato – ed è ancora – in prima linea.

Anche per far sì che «non ci siano altri casi di gravi disabili» che muoiano per «abbandono terapeutico».

C’è un «limite contenutistico alla Dichiarazioni anticipate», ha detto il docente di Diritto penale alla Cattolica di Piacenza Luciano Eusebi: sta nella Convenzione di Oviedo che prevede interventi solo a «beneficio della persona». Un principio «di democrazia e uguaglianza». Ma che se sottoposto a un giudizio sulla qualità della vita non è «più un principio cardine e diventa soppesabile con altre esigenze individuali». Fino a configurare con il filosofo tedesco Böckenförde una «flessibilizzazione dei diritti fondamentali».

Sulla figura del medico, che non può essere un mero esecutore tecnico ma è sempre «un soggetto testimone del prendersi cura del malato», si è soffermato don Roberto Colombo, che dirige alla Cattolica di Milano il laboratorio di biologia molecolare. «Siamo contrari – ha concluso – a ogni forma di autodeterminazione che diventi pretesa» vincolante fino a «fare violenza al libero convincimento del medico».