Questo Blog nasce con l'intento di promuovere e difendere il diritto alla vita di ogni essere umano dal concepimento alla morte naturale, come fondamento di tutti i diritti umani e quindi della democrazia e, già ampiamente, di dibattere i temi della ricerca scientifica per quanto attiene alle ricadute sulla vita dell’uomo e della società.



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venerdì 29 febbraio 2008

La malintesa autonomia del paziente, un modo per abbandonarlo

CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 28 febbraio 2008 (ZENIT.org).- Una “eccessiva enfasi” sul “principio di autonomia del paziente” nel prendere decisioni sulla sua terapia conduce a forme di abbandono del malato e a carenze nella responsabilità del medico.
Lo ha affermato la dottoressa Paulina Taboada, medico internista esperto in Medicina Palliativa, nel corso del Congresso Internazionale della Pontificia Accademia per la Vita (PAV) – Città del Vaticano, 25 e 26 febbraio – sul tema “Accanto al malato inguaribile e al morente: orientamenti etici ed operativi”.
Al programma di interventi di carattere scientifico, antropologico, etico e deontologico, la professoressa, che insegna presso la Pontificia Università Cattolica del Cile e dirige il Centro di Bioetica della stessa università, ha apportato un'ampia riflessione sul tema “Mezzi ordinari e straordinari di mantenimento della vita: l'insegnamento della tradizione morale”.
La docente ha chiarito l'equivoco medico che equipara “la distinzione ordinario/straordinario” con l'“usuale/inusuale” nelle terapie.
“La distinzione tra mezzi 'ordinari' e 'straordinari' non si riferisce in primo luogo al tipo di mezzo in generale – ha detto nel suo intervento –, ma piuttosto al carattere morale che l'utilizzo di questo mezzo ha per una persona in particolare”.
Dilemma etico
“Come medico esperto di bioetica, la domanda più frequente che mi pongono colleghi e professori si riferisce ai criteri per decidere la limitazione o meno delle terapie nei pazienti”, ha detto a ZENIT la dottoressa Taboada a proposito del suo intervento.
E' uno degli interrogativi a cui “è più difficile rispondere”, aggiunge, “per noi, come medici, e a maggior ragione per i pazienti stessi e per le famiglie, che inoltre confidano in buona misura nel giudizio medico”.
“Di fronte a questo dilemma etico, la tradizione morale della Chiesa cattolica ha proposto la distinzione classica tra mezzi ordinari e straordinari”, “ampiamente conosciuta nel mondo medico e che si applica per le decisioni di limitare gli sforzi terapeutici”, ma “purtroppo nel mondo medico questo insegnamento non sempre è ben compreso”, osserva.
“La mentalità medica è formata da un pensiero scientifico-tecnico che ama le risposte concrete e rapide”, spiega, ma “per poter rispondere sul limite da raggiungere con le terapie mediche bisogna compiere un giudizio etico, un giudizio di prudenza, che è complesso, ha bisogno di calma e di tener conto di molti elementi”.
Tra questi, la dottoressa Taboada cita “l'utilità medica del trattamento – perché ci sono prove scientifiche che quella data cura possa aiutare in concreto il paziente”, “le complicazioni di quei trattamenti – perché tutti hanno associato qualche effetto negativo”, o anche “se quel trattamento è disponibile nel luogo in questione, una cosa difficile nei Paesi poveri, perché nelle capitali possono esistere e nei villaggi più lontani no”.
Dall'autonomia all'abbandono
Il giudizio – estremamente “delicato”, insiste l'esperta – sull'obbligatorietà morale di una cura pone anche davanti a decisioni “da prendere nel contesto individuale del paziente”.
La dottoressa ha detto a ZENIT che “nell'etica medica contemporanea esiste una tendenza a dare eccessiva enfasi al principio di autonomia del paziente”.
“Rispettando profondamente la libertà e l'autonomia delle persone, non sono d'accordo con questo approccio, perché penso che noi professionisti della salute abbiamo una responsabilità enorme di aiutare i pazienti a prendere decisioni giuste in relazione alla loro salute e alla loro vita”, ha avvertito.
“La responsabilità ultima verso la propria salute e la propria vita ce l'ha sicuramente la persona stessa – sottolinea –, ma per poter prendere una decisione responsabile circa le cure mediche c'è bisogno di informazioni, e queste in genere provengono dal personale medico”.
Perché il paziente possa quindi esercitare bene questa responsabilità, “ha bisogno che l'équipe sanitaria gli fornisca informazioni comprensibili, complete, adeguate alla sua situazione e che in qualche modo includano anche un giudizio morale”.
In questo contesto, la dottoressa propone un rapporto medico-paziente “più partecipativo”, che includa “un processo di dialogo per giungere a una decisione comune della terapia adatta al caso particolare”.
“Mi sembra che lasciare il paziente solo nel prendere decisioni, dandogli solo informazioni, e poi aspettare che scelga ciò che vuole sia una forma di abbandono”, ha sottolineato.
Ascolto e silenzio
Per accompagnare la persona nella fase finale della sua vita, ha proseguito la dottoressa Taboada, è “estremamente importante prendere sul serio il tema della sofferenza”.
“Quando si soffre sono coinvolte tutte le dimensioni e si sperimenta una certa solitudine; c'è qualcosa di incomunicabile”.
Quando ci si avvicina alla fine della vita, “ciò si moltiplica, perché alle sofferenze fisiche” “si somma il dolore spirituale”.
Per questo è importante “imparare ad ascoltare”, che “presuppone anche il captare i segni corporei, non solo le parole”, perché “in molte occasioni i pazienti esprimono molto di ciò che stanno vivendo attraverso i gesti”.
“Nella mia esperienza – ha confessato la dottoressa a ZENIT –, quando le persone dicono 'non ce la faccio più', 'non voglio continuare a soffrire', molte volte hanno bisogno di un sostegno umano, di qualcuno che li accompagni, e anche di un sostegno che getti una luce di senso su quello che stanno vivendo”.
“Mi aiuta una cosa che ho applicato con i pazienti e con me stessa – ha concluso –, una frase di Giovanni Paolo II: molte volte, con la sofferenza, ciò che bisogna fare è mantenere un rispettoso silenzio, e di fronte al mistero permettere a Dio di avere i suoi segreti”, “accettare che non possiamo comprendere tutto”.

mercoledì 27 febbraio 2008

"LA PILLOLA ABORTIVA E' PERICOLOSA" SCIENZA & VITA DI LATINA A FIANCO DELLE DONNE



Neanche le sedici donne morte a causa dell’aborto chimico hanno indotto l’Agenzia italiana del farmaco ad adottare un criterio di precauzione. Il suo via libera alla Ru486 - secondo il principio del mutuo riconoscimento - è la vittoria delle burocrazie e la sconfitta di un governo democratico degno di questo nome”. Così l’Associazione Scienza & Vita, che tutela la vita umana dal concepimento alla morte naturale, giudica la decisione assunta dall’Aifa che presenta ulteriori punti di crisi. “A partire – sottolinea l’Associazione – dalla banalizzazione del dramma dell’aborto, ridotto ad una pillolina da mandar giù. Per non parlare della sostanziale deresponsabilizzazione da parte dei medici che potranno così addossare l’intera responsabilità dell’atto sulla donna. Una donna che si ritroverà ancor più sola dinanzi al proprio dramma, contando sulla parola di chi le promette un aborto facile”. “Ma ancor più sorprende – sottolinea Scienza & Vita – il disinvolto e irresponsabile oscuramento dei dati scientifici che, purtroppo, parlano chiaro: la letteratura medico-scientifica ci dice che la pillola RU486 causa la morte della donna dieci volte in più rispetto all’aborto chirurgico. Dunque, un rischio altissimo che non spaventa e non ferma il moloch farmaceutico né un sistema sanitario che preferisce lavarsene le mani”. “A questo punto - conclude Scienza & Vita – non potremo stare con le mani in mano e intensificheremo la nostra azione di sensibilizzazione e di pressione culturale. Inoltre metteremo a disposizione il nostro centralino per eventuali denunce di cattiva pratica medica e per la segnalazione di eventi avversi che vedano vittime le donne. In tal caso, non trascureremo la possibilità di affiancare le donne e i loro familiari nel rivalersi in tutte le sedi, civili e penali”.

LETTERA APERTA DI SCIENZA & VITA ALLA FNOMCEO:"QUEL TESTO NON VOTATO? UNA BRUTTA STORIA"

I presidenti di Scienza & Vita, l’Associazione che tutela la vita umana dal concepimento alla morte naturale, hanno indirizzato una lettera aperta al presidente della Fnomceo, Amedeo Bianco. Maria Luisa Di Pietro e Bruno Dallapiccola così si esprimono: “Le scriviamo per manifestarle in quanto medici – prima ancora che presidenti dell’Associazione Scienza & Vita – la nostra profonda amarezza per quanto accade in queste ore. Innanzitutto ci sembra sorprendente che sia stato diffuso alla stampa un documento della Fnomceo che non è stato sottoposto al voto di tutti i presidenti provinciali degli Ordini dei medici dei quali pertanto non si conosce, al momento, l’effettiva volontà. In secondo luogo e in riferimento al testo fatto da Lei circolare, traspaiono il tradimento del nostro “essere medici” da parte della Fnomceo, oltre che la mancata considerazione dei dati scientifici e delle evidenze cliniche in materia di aborto chimico, pillola del giorno dopo e diagnosi genetica preimpianto”.
Nel prosieguo della lettera i due presidenti contestano puntualmente, punto per punto, le parti del testo diffuso dalla Fnomceo senza il voto preventivo del Consiglio nazionale. E poi così concludono: “Allo stato delle cose ci sembra innanzitutto necessario che la Fnomceo chiarisca cosa è davvero accaduto nel corso del Consiglio nazionale e se il testo diffuso non è stato votato, come ci ha rivelato Avvenire, tutti ne traggano le inevitabili conseguenze dinanzi all’opinione pubblica italiana”. In ogni caso l’Associazione Scienza & Vita ha lanciato una mobilitazione di base perché i medici che aderiscono alle 84 associazioni locali sparse sul territorio nazionale facciano circolare i contenuti della lettera aperta e intervengano nei confronti dei rispettivi Ordini provinciali perché venga fatta definitivamente chiarezza ed emerga la volontà reale dei medici italiani.

giovedì 14 febbraio 2008

Aborto legale: un tabù conformista che può essere infranto

Intervento della dottoressa Claudia Navarini, docente presso la Facoltà di Bioetica dell'Ateneo Pontificio Regina Apostolorum.





Il risveglio di coscienze iniziato in Italia nel periodo del dibattito referendario sulla legge 40, fra il 2004 e il 2005, continua a produrre i suoi effetti in campo bioetico presso l'opinione pubblica, accrescendosi anzi di sorprendenti e insperati appelli a difesa della vita umana.
La proposta di moratoria contro l'aborto lanciata prima di Natale dal direttore del quotidiano "Il Foglio", Giuliano Ferrara, ha mostrato laicamente l'assoluta rilevanza del problema, ovvero il fatto che - nonostante sembrasse fino a pochi anni fa una questione tristemente archiviata - c'è ancora molto da dire e da fare per sensibilizzare tutti a ripensare alla tragedia dell'aborto, quale crimine abominevole che può e deve essere fermato attraverso l'azione culturale e la riforma legislativa.
Molti hanno infatti compreso, in questi straordinari anni della nostra storia, che si può ancora fare corretta informazione e sana formazione delle coscienze, che scienza ed etica non sono affatto incompatibili, ma che anzi procedono in un imprescindibile e profondo - anche se a volte nascosto - accordo. Quando ciò non risulta chiaro alla nostra intelligenza si tende (ancora) ad invocare il relativismo morale (e non a mettere in discussione la teoria scientifica del momento), affermando che le contraddizioni apparenti fra scienza ed etica derivano dal fatto che "ognuno ha la sua verità" e che "ci sono molte etiche". Troppo poco ancora si pensa che il problema risieda in realtà proprio nella "scienza", o meglio nello scientismo, che vede come certo e irrevocabile ciò che in fondo è solamente ipotetico e tentativo.
La scienza sperimentale procede infatti per ipotesi, e ogni tanto sbaglia, oppure non comprende bene, o presenta lacune e incertezze. Lo hanno spiegato per secoli i filosofi della scienza. Al contrario, la verità sull'uomo e sulla sua natura non derivano da meri dati empirici e da teorie falsificabili, ma da dati e riflessioni meta-empiriche che si radicano nell'essere immutabile e necessario dell'uomo, e che pertanto presentano ben altra affidabilità e stabilità. In altre parole, la coerenza fra scienza ed etica è una certezza morale prima ancora di essere un'evidenza razionale.
In tema di aborto, tale profonda coerenza emerge con particolare limpidezza nella questione contesa dell'inizio della vita umana, che per molti versi ha segnato l'ingresso nelle legislazioni di tutto il mondo della liceità dell'aborto. Nessuna legge ha potuto affermare che il bambino non nato non è ancora vita umana, o non possiede dignità personale, ma tutte hanno ignorato volutamente il problema, considerandolo "non rilevante" ai fini normativi.
Un abuso della logica, senza dubbio, che finalmente è uscito dalla condizione di tabù per divenire un argomento razionale rispettabile. Anche i più incalliti abortisti, almeno in Italia in questi mesi, prendono sul serio le argomentazioni dei pro life su questo punto, e puntano su altro per difendere le loro posizioni. Proviamo dunque a sintetizzare per sommi capi la questione.
Intanto è essenziale ribadire che solo partendo da ciò che accade effettivamente con l'aborto si può valutare eticamente la sua rilevanza e intervenire nel giudizio sulle formulazioni giuridiche in materia. Lo statuto dell'embrione umano è un dato di realtà da cui non si può in alcun modo prescindere. Contrariamente a quanto affermano le ideologie, infatti, è la realtà ad avere il primato sull'idea, e solo osservando la realtà e cercando sinceramente di comprenderla è possibile agire in modo retto.
Dunque non è banale e scontato tornare a chiedersi chi sia l'embrione. Dal punto di vista biologico, la domanda ha già trovato risposta da tempo: è un essere umano, una vita umana. Da quando esattamente? Anche questo si evince facilmente dalla biologia: dall'istante del concepimento, cioè dall'irruzione dello spermatozoo nel citoplasma dell'ovulo. Tale momento, cruciale e misterioso, produce un cambiamento irrevocabile nel sistema, ovvero la trasformazione di due cellule in una nuova cellula, essenzialmente diversa dalle precedenti sebbene da queste derivata, poiché si tratta della prima cellula di un nuovo individuo (zigote), dotata della capacità intrinseca e autonoma di sviluppo (cfr. C. Navarini, Procreazione assistita? Le sfide culturali: selezione umana o difesa della vita, Portalupi, Casale Monferrato 2005).
Tutte le condizioni esterne che sono necessarie a tale sviluppo non costituiscono, a quel punto, cause dello sviluppo medesimo, bensì semplici fattori condizionanti di tipo ambientale, come tanti di simile importanza ne ritroviamo disseminati lungo tutta la vita degli organismi. Se questa è la risposta della biologia, che spazza via in un attimo tutte le pseudo-teorie sull'inizio posticipato della vita umana (pre-zigote, pre-embrione), la riflessione filosofica ha ancora molto da dire. Possiamo infatti chiederci ora quale sia il valore di questa vita umana nelle prime fasi, se sia lo stesso della "vita adulta" oppure se esista qualcosa come la "dignità graduata" negli esseri umani. Si invoca in questo senso il concetto di persona, come termine che identifica la piena dignità umana, e ci si chiede se ogni essere umano sia per ciò stesso anche persona.
La soluzione al dilemma si può trovare procedendo per absurdum. Infatti, se si nega la possibilità di tale identificazione, si cade in contraddizioni insanabili. È impossibile isolare una caratteristica la cui "manifestazione" o attuazione sia causa della dignità personale. La dimensione personale, per quanti tentativi si facciano di catturarla, non si trova empiricamente in nessuna delle manifestazioni tipiche dell'uomo. Che è quanto dire: non si identifica con nessuna caratteristica umana storicamente data e visibile, anche se ne spiega - e per certi versi comporta - l'esistenza.
Non a caso una delle definizioni più celebri di ‘persona', quella boeziana, fa riferimento ad elementi non visibili, non empirici, ma necessari all'uomo in quanto uomo: sostanza individuale di natura razionale. La nozione di sostanza individuale si può qui considerare intuitiva e tale da non richiedere commenti. L'appello alla natura razionale, invece, riveste qui grande interesse perché addita, appunto, ad un livello meta-empirico, o se si preferisce metafisico. Non equivale all'esercizio della razionalità, come alcuni vogliono credere, ma alla particolare essenza o natura che mette l'individuo in grado, nelle dovute condizioni, di esercitare la razionalità, cioè di parlare, di fare discorsi intelligenti, di capire, di amare, di volere, ecc.
Gli atti razionali, di nuovo, non sono la causa della razionalità, ma il suo effetto, così come l'organo dell'intelligenza non è il cervello (che rappresenta piuttosto la condizione materiale di sviluppo e di esercizio della facoltà) ma l'essenza o natura propria dell'individuo, che è appunto la natura razionale. Tutti gli esseri umani, dunque, godono della dignità personale al di là delle loro manifestazioni, anche se sono ancora molto piccoli, o se non sono più coscienti, o se sono colpiti per tutta la vita disabilità mentale grave.
Se lo statuto dell'embrione umano non può essere invocato a supporto di qualsivoglia legge a favore dell'aborto, la questione della salute delle donne e del loro diritto all'autodeterminazione diventa invece decisiva, al punto da produrre la curiosa posizione di coloro che si dichiarano personalmente contrari all'aborto ma favorevoli ad una legge che consenta di abortire a chi la pensa diversamente.
Parrebbe infatti che un ostacolo insormontabile ad una battaglia integralmente contraria alla legalizzazione sia questo: il diritto della donna ad avere, laddove proprio non riesca ad evitarlo, un "aborto sicuro". Per qualcuno, anche di impostazione generalmente antiabortista, la fecondazione artificiale sarebbe un male intrinseco, mentre l'aborto un male "relativo", perché, in questo caso, esisterebbero i "diritti inalienabili della donna all'autodeterminazione" e la condizione speciale di "simbiosi" mamma-figlio che potrebbero portare, in taluni casi, ad un "conflitto di interessi" tale da giustificare la soppressione del bimbo in grembo.
Si denuncia con veemenza, di recente, la superficialità e frequenza nel ricorso all'aborto procurato, che avrebbero trasformato la tragedia personale e sociale di un atto occisivo ("estrema ratio") in una pratica comunemente e impunemente accettata, magari nella forma più nascosta e ancora più insidiosa dell'aborto chimico. L'accusa rivolta da questi pensatori è che il problema dell'aborto, giudicato in fondo "inevitabile", derivi dall'applicazione selvaggia e indiscriminata della legge194, che pure, sempre secondo questa linea di pensiero, avrebbe avuto dei meriti, fra cui quello di difendere almeno in parte la maternità e la vita nascente, di avere contribuito alla riduzione del numero degli aborti complessivi, di avere finalmente debellato la piaga dell'aborto clandestino, che si pratica raramente e per cui "non si muore più".
In queste affermazioni c'è molto da rivedere. A cominciare dalla stessa espressione di diritto alla salute che, attribuito alle donne o meno, risulta ambiguo. A rigore, infatti, nessuno può rivendicare un diritto ad essere sano, dal momento che il bene salute è sempre instabile, fin dagli albori dell'esistenza, minacciato di continuo da quella strutturale finitezza dell'uomo che un giorno, volenti o nolenti, ci condurrà alla morte. La salute, specialmente quando intesa come "stato di completo benessere fisico e psichico", come recita una nota definizione ONU, è una pura astrazione, dipende solo parzialmente dagli interventi dell'uomo, e non è mai prevedibile. Tale diritto ha senso solo se inteso come diritto alle cure (alle migliori cure disponibili) e come diritto alla tutela della propria salute, per quanto è umanamente e socialmente possibile.
Ora, posto che l'uccisione di un bambino innocente, pur situato nel corpo della donna, pur indesiderato, pur malato, non può mai divenire una forma di "terapia" (diritto alle cure), resta da vedere se la soppressione del medesimo bambino possa essere intesa come tutela della propria salute, ovvero se si possa vedere nella semplice sussistenza in vita di un bambino una minaccia per la salute della mamma. Anche qui, questa eventualità può essere data solo se si considera tale minaccia in senso molto generico. Infatti, già un banale - e comunque insufficiente - confronto di diritti dovrebbe portare a ritenere non comparabile il diritto alla salute della madre con quello alla vita del bambino, quest'ultimo essendo più fondamentale del primo.
Ma il valore di minaccia per la propria salute (anche della propria vita) da parte della vita altrui è ulteriormente ridimensionato da semplici, ancorché paradossali, osservazioni tratte dall'esperienza comune, in cui molto del nostro benessere è compromesso a causa di altri: il bambino già nato che mi costringe ad alzarmi di notte per nutrirlo mi fa perdere preziose ore di sonno, e ciò indebolisce le mie difese immunitarie, con il risultato che mi ammalo di più; il carattere iroso dei figli, del coniuge o del vicino di casa provocano in me attacchi di bile che mi fa salire la pressione, e questo a lungo andare avrà conseguenze nefaste sul mio sistema cardiocircolatorio; la cucina di mia madre, piena di grassi, mette repentaglio la mia linea, con evidenti problemi relazionali, e mi predispone a futuri terribili squilibri metabolici; ancora, il disservizio dei trasporti mi obbliga ad attendere l'autobus per un tempo smisuratamente lungo rispetto a quanto programmato, e nelle mattine più fredde ciò si trasforma in un sicuro raffreddore.
Molto peggio: la guida irresponsabile causa una grande quantità di incidenti, la malasanità fa un sacco di morti, l'inquinamento abbassa la durata e la qualità di vita. E via di questo passo. Di fatto, noi non interveniamo eliminando sistematicamente coloro che sono causa di mali per noi, nemmeno quando lo sono volontariamente. Per questo è parsa a tutti giustificata la moratoria internazionale voluta dall'ONU sulla pena di morte. Ma tanto più dovrà essere giustificata allora una grande moratoria internazionale sull'aborto, che dica chiaramente come gli eventuali problemi legati ad una gravidanza non possono ricadere sul diritto inalienabile del bambino a vivere.
Se anche la cosiddetta "interruzione" potesse ristabilire uno stato di salute - fisica o psichica - per la donna o "risolvere" le difficoltà che una gravidanza provoca (problemi economici, di lavoro, logistici, di solitudine, ecc.), ciò non sarebbe motivo sufficiente per sopprimere un innocente, che altra colpa non ha se non quella di essere stato chiamato, senza avere chiesto nulla, all'esistenza.
Le donne vanno pertanto aiutate a superare i motivi che rendono gravosa una gravidanza, e difficile la vita di una famiglia numerosa, ma tra i modi per farlo l'aborto non dovrebbe essere un'opzione percorribile. Anche perché, in genere, la sofferenza provocata nell'interiorità della donna dall'aborto è devastante, indelebile, profonda e porta molti più problemi di quanti si vanti di risolverne. Coloro che aiutano da anni le donne a non abortire confermano di non avere mai incontrato persone che si sono pentite di avere tenuto il loro bambino, mentre numerose sono quelle che non vorrebbero mai avere abortito.
Infine, i pericoli dell'aborto clandestino. Negli anni Settanta l'aborto clandestino è stato sventolato come uno spauracchio davanti all'opinione pubblica per indurla a pensare che vi fosse un'emergenza nazionale, da fermare con l'aborto legale quale "male minore". Numeri spaventosi numeri vengono ancora oggi citati, purtroppo a sproposito. Illuminante a questo proposito è l'articolo di Antonio Socci, apparso su "Libero" il 6 gennaio 2008, che mostra come - dati ufficiali alla mano - i milioni di aborti clandestini denunciati in Italia prima della legge vadano realisticamente ricondotti attorno ai 15-20 mila l'anno (e non sono certo pochi), e le morti femminili ad esso conseguenti, contate all'epoca in varie decine di migliaia, vadano verosimilmente ridotte a qualche decina l'anno.
Come osserva Socci, "una cifra certo triste (umanamente anche una singola morte è una tragedia) ma non un'emergenza nazionale". Oggi, a trent'anni da quella legge, il numero degli aborti clandestini non sembra essere diminuito (nel 2005 erano ancora 20 mila). In fondo è logico: una legge, per quanto permissiva, avrà sempre dei limiti che escluderanno qualcuno dai "nuovi diritti", e questo qualcuno, a maggior ragione in un contesto che ammette la liceità dell'aborto, sarà portato a violare clandestinamente tali limiti. Oltre ai persistenti aborti clandestini, però, abbiamo anche 130mila aborti legali l'anno. Un bilancio davvero poco onorevole.
In questo mare di indifferenza e di dolore, in questo abominio silenzioso, si diffonde la portata eugenetica dell'aborto. La legge 194, teoricamente, non la ammette (e dunque è disapplicata su questo punto). Tuttavia, senza ombra di dubbio, è la legalizzazione dell'aborto in quanto tale a favorire una mentalità eugenetico/selettiva. Inoltre, non si può negare che già nelle intenzioni la 194 aprisse alla prospettiva eugenetica, per le oggettive ambiguità e aperture che conteneva fin dall'inizio. Non è un caso che l'aborto abbia portato, nel tempo, ad una riduzione drastica dei disabili, non per miglioramento delle cure ma per eliminazione dei disabili stessi, ritenuti portatori di "vite senza valore". Un valore sempre più spietatamente e titanicamente legato a criteri di efficienza e di perfezione, per un eugenismo dal volto rassicurante ma non per questo meno desolato.
Pertanto, mentre è evidente che, laddove non esista alcuna realistica possibilità di abrogare la legge che legalizza l'aborto volontario, occorre fare il possibile per limitarne i danni (modificando almeno alcune parti, applicando correttamente le disposizioni più a favore della maternità, aiutando concretamente donne e famiglie), è parimenti evidente che la verità su tale norma non va taciuta. Come ha chiaramente ribadito il Card. Bagnasco nella sua
Prolusione al Consiglio Permanente della CEI: "[I]l delitto di aborto è, come avverte il Concilio Vaticano II (GS n. 51), abominevole di per sé, ed è un'ingiustizia totale. Come non valutare benefica la discussione che, nel nostro Paese, si è aperta nel corso delle ultime settimane, e come non essere grati a chi per primo, da parte laica, ha dato evidenza pubblica alla contraddizione tra la moratoria che c'è e quella che fatichiamo tanto a riconoscere? Il fatto che, a trent'anni dall'approvazione della legge 194 che rende giuridicamente lecito l'aborto, la coscienza pubblica non abbia "naturalizzato" ciò che naturale non è, è un risultato importante (...) Per questo occorre razionalmente non escludere almeno l'aggiornamento di qualche punto della legge, pur continuando noi Vescovi a dire che non ci può mai essere alcuna legge giusta che "regoli" l'aborto".
La legge 194 resta una legge profondamente ingiusta e radicalmente minata dall'ipocrisia, che ha legalizzato in Italia la pratica dell'aborto volontario, incentivandone così il ricorso e banalizzandone sempre più il significato. Se abolire la 194 - o modificarla eliminando la possibilità di sopprimere vite umane e trasformarla in norma di autentica tutela della maternità e di protezione della gravidanza - non è facile, almeno in tempi brevi, fare chiarezza sulla sua inammissibilità e lavorare alla ricostruzione di una cultura che respinga tale abominio è premessa indispensabile alla liberazione da questa piaga.

martedì 5 febbraio 2008

Aborto: lo scandalo supremo del nostro tempo

Parla il responsabile organizzativo del Movimento per la Vita


Di Antonio Gaspari

ROMA, lunedì, 4 febbraio 2008 (ZENIT.org).- Intervistato da ZENIT, Giorgio Gibertini, responsabile organizzativo del Movimento per la Vita (MpV), illustra le ragioni di come realizzare la pace fermando l’aborto.
Domenica 3 febbraio, in piazza San Pietro insieme alle migliaia di militanti del Movimento perla Vita, Giorgio Gibertini racconta: “Da 19 anni sono nel Movimento per la vita italiano. Tutti noi del Movimento sapevamo che il 2008 sarebbe stato un anno di manifestazioni e di ‘celebrazioni’ per i trenta anni della legge 194, ma mai avremmo immaginato di vedere tanti giovani al nostro fianco”.
“Insieme all’iniziativa di moratoria sull’aborto lanciata da Il Foglio, credo che possiamo veramente ricacciare indietro la cultura della morte”, continua Gibertini, e soprattutto “fornire alla gente le ragioni del perché noi consideriamo l’aborto come lo Scandalo supremo del nostro tempo”.
“Personalmente sono convinto che il problema è l’aborto, non le leggi”, sottolinea l’esponente del MpV, e aggiunge: “Liberiamoci dell’aborto in tutto il mondo, facciamo sì che nessuna madre vi ricorra più, per nessun motivo, vinciamo la battaglia dal punto di vista culturale e lasciamo agli abortisti il vessillo vuoto delle leggi ingiuste”.
Gibertini ha poi detto che se si guarda bene “alla pillola del giorno dopo e alla Ru486 non ci si può ingannare, perché questo è aborto non è contraccezione”.
A questo proposito il responsabile organizzativo del MpV ha lanciato un appello al Ministro della Sanità, Livia Turco: “Spenda soldi, cara ministro, non per spot in cui dice ‘mettiti un preservativo e fa quello che vuoi’ ma provi, a parlare dell’amore, che non odora di lattice, ma del donarsi e del rispettarsi reciprocamente. Possibile che non si possa più parlare di bimbi, di figli, di amore?”.
Gibertini ha rilevato che tra le tantissime lettere che il MpV riceve e tra quelle che arrivano a Il Foglio vi sono i tanti giovani che la 194 non l’hanno votata, ma l’hanno subita. Infatti, la legge che regolamenta l'interruzione volontaria di gravidanza è del 1978 e coloro che poterono votare per la sua abrogazione nel Referendum del 1981 erano nati prima del 1963.
Il responsabile organizzativo del MpV afferma: “Oggi siamo nel 2008 ed il diritto di voto ce l’hanno le persone, uomini e donne, nati dopo il 1990. Quindi dal 1963 al 1990 vi sono 27 anni di persone, oggi anche loro madri e padri, che questa legge se la sono trovata, l’hanno subita, non hanno potuto contrastarla nell’81, sono sopravvissuti all’aborto perché nati dopo il 1978… ecco tutta questa gente ha un’opinione diversa sull’aborto e sulla legge e vuole esprimerla e si sta esprimendo unendosi al Popolo della Vita”.
Dopo aver difeso le ragioni dei padri che non vengono neanche consultati quando la donna decide di abortire, Gibertini ha ricordato le esperienze raccolte nel libro di cui è autore “Mi hanno accolto con un abbraccio” (edizioni Fede & Cultura) in cui si racconta come a volte, basta un abbraccio, una semplice parola di verità ed amore per aiutare una madre a scegliere per la vita.
Gibertini ha quindi rilanciato l’intenzione di stare accanto alle madri vittime anch’esse dell’aborto: “Se un aborto costa allo Stato tra i mille ed i duemila euro circa perché non cominciare a darli alle madri che scelgono per la vita?”.
Il responsabile organizzativo del MpV ha ricordato che un giorno Padre Pio, a chi gli chiedeva una opinione sull'aborto, rispose: “Basterebbe un giorno senza nessun aborto e Dio concederebbe la pace al mondo fino al termine dei giorni”.
“Questa è la pace che noi Popolo della Vita vogliamo, per noi e per i nostri figli e figlie – ha sottolineato in conclusione Gibertini –, non la falsa pace delle bandiere appese ai balconi di chi lotta contro la guerra ma è favorevole all’aborto; non la falsa pace di chi lotta contro la pena di morte ma è favorevole all’aborto. Vogliamo la Pace che parte dal grembo materno”.