Questo Blog nasce con l'intento di promuovere e difendere il diritto alla vita di ogni essere umano dal concepimento alla morte naturale, come fondamento di tutti i diritti umani e quindi della democrazia e, già ampiamente, di dibattere i temi della ricerca scientifica per quanto attiene alle ricadute sulla vita dell’uomo e della società.



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venerdì 9 marzo 2012

STAMINALIA (II)

da: Neurobioetica


Continuiamo la nostra riflessione sul libro Staminalia. Le cellule «etiche» e i nemici della scienza di Armando Massarenti (Ed. Guanda, Parma 2008) che ho avuto modo di recensire per la rivista Studia Bioethica nel 2008.

Siamo sempre a pagina 5 dell’INTRODUZIONE, riprendo dal precedente articolo.

“La cautela è il primo dovere morale quando si è di fronte a un campo di ricerca come quello delle cellule staminali”, così afferma l’autore subito dopo aver chiarito l’importanza capitale di tale settore della medicina del XXI secolo. Niente di più vero: la CAUTELA quale linea guida per il bioeticista che vuole esprimere un giudizio ponderato alla luce dei fatti e non dei pregiudizi.

Peccato che le parole, “belle e sonanti” di quest’introduzione vengano smontate in modo lapidario, sia dalla copertina del libro, ma soprattutto dal contenuto dello stesso, specie nelle affermazioni di giudizio che esprime rigurado la ricerca con cellule staminali adulte ed embrionali. 

Massarenti continua dichiarando che al momento attuale (2008) questa rivoluzione scientifica della ricerca sulle cellule staminali non ha “ancora prodotto risultati tali da far toccare con mano” le grandi speranze che molti ripongono in essa.

“È da questa ragionevolezza che bisogna partire se si vuole affrontare, nella sua interezza, l’insieme delle responsabilità e dei problemi che questo tipo di ricerca pone”, ecco delineato il criterio che Masserenti utilizzerò lungo la sua esposizione: la ragionevolezza di ciò che non esiste e che è soltanto una speranza, un futuribile, una proiezione, un’attesa, quella che la ricerca sulle cellule staminali possa produrre quelle strategie terapeutiche che possano risolvere la stragrande maggioranza delle patologie odierne. Insomma, una vera e propria PANACEA.

Il parallellismo con un’autentica rivoluzione scientifica viene proposto attraverso le parole del preside della facoltà di Medicina di Harward (viene cioè invocato a supporto l’argomento d’autorità): le terapie che ne deriveranno “è probabile che potranno fare per le malattie degenerative quello che gli antibiotici hanno fatto per le infezioni”. Anche quest’affermazione trova la sua verità nel contesto teoretico della medicina molecolare: in linea teorica, in effetti, sarebbe possibile impiegare cellule staminali indirizzandone selettivamente il differenziamento (cioè la trasformazione) nei tipi cellulari desiderati in modo da supplire determinate funzioni biochimiche perse o deficitarie in soggetti patologici.

Masserenti afferma poi che anche la politica ne è consapevole e annovera le richieste sottoscritte da numerosi parlamentari americani favorevoli alla ricerca su cellule staminali.
Purtroppo però si sta facendo di tutta un’erba un fascio, come si dice. Infatti, non viene specificato se si sta parlando di ricerca su cellule staminali adulte o embrionali, il cui divario applicativo ed etico è notevole e scientificamente provato (come dimostrerò in seguito).

Concluso questo primo paragrafo l’autore afferma un principio chiave per capire la mentalità soggiacente sia alla copertina “cauta” e assolutamente priva di pregiudizi del libro, che al contenuto dei capitoli seguenti: “il realizzarsi o meno di queste profezie” (afferma Masserenti attribuendo alla ricerca sulle cellule staminali in generale carattere profetico, cosa che per il momento non ha, dato che ancora non si possiedono risultati tangibili che possano nella clinica supportare tale definizione) “dipenderà inanzitutto da due elementi: il potere reale di quelle cellule e la creatività (e libertà) dei ricercatori”.
Ecco così i due pilastri: l’effettiva capacità terapeutica delle cellule staminali da una parte, e la libertà dei ricercatori dall’altra.

Siamo così a pagine 6. L’autore segue con la sua vena moralistica quando afferma che non bisogna cercare di ingabbiare in schemi e restrizioni morali la creatività dei ricercatori e che, senza fondati argomenti, si impedisca loro una libera espressione.

Bisognerebbe a questo punto fiutare qualcosa che non va. Cosa intende Massarenti con “libertà dei ricercatori”? Cosa vuol nascondere dietro la bella parola “creatività” degli scienziati? Lo scopriremo poco a poco, ma anticipo che l’autore propugna lungo il testo un’assolutizzazione della sacrosanta libertà di ricerca fino al punto che nessuna ingerenza etica, che non derivi dalla scienza empirica stessa, possa frapporsi nel guidare lo scienziato nelle sue linee di ricerca.

Segue Massarenti: “al tempo stesso però cerchiamo, in quanto cittadini responsabili, di non avere un atteggiamento acritico verso ciò che ci viene proposto” dall’ambito scientifico. Certamente l’autore di questo libro non può essere accusato di essere acritico, basti osservare, anche di sola sfuggita, la copertina dell’opera: è tutta una magistrale critica piena di pregiudizi infondati!

Dal terzo paragrafo Massarenti rivela la sua vera e propria battaglia culturale: quella dell’univoca bandiera delle cellule staminali embrionali! Ecco come la presenta: “non meno importante è un terzo fattore. L’insieme delle decisioni relative alle regole, alle leggi, alle politiche dei finanziamenti che i governi sapranno prendere” e prosegue criticando la decisione del presidente Bush di restringere il finanziamento pubblico alla ricerca sulle cellule staminali definendola: “politica schizofrenica”. Certo, sorprendono queste “sparate” dell’autore che nemmeno una pagina prima parlava di “cautela”... ora invece “spara a zero”. Così i suoi “nemici della scienza” iniziano ad avere un volto: è George Bush, ma sono anche tutti coloro che liberamente si dichiarano contrari alla ricerca sulle cellule staminali embrionali (soltanto con quelle embrionali! senza distinzioni, né cautele).  

Massarenti finge di ricordare che, volente o nolente, l’utilizzo di embrioni umani quali meri mezzi (oggetti di ricerca) pone questioni etiche non indifferenti, perlomeno alla stragrande maggioranza di quei “cittadini ragionevoli” a cui ci riferivamo prima. Perciò, è lecito, anzi, doveroso, moralmente e secondo giustizia che i soldi dei contribuenti che non sono favorevoli a tali distruzioni scellerate di esseri umani non vengano impiegati pubblicamente. La scelta di Bush è doverosissima in uno stato di diritto, cosa che prude agli intolleranti scientisti o ai paladini di una libertà di ricerca che diviene l’assoluto che si erge al di sopra della morale e dell’etica, oltre che del diritto e della giustizia.

Masserenti inizia a “sparare a zero” sulle politiche italiane (insomma, sul piatto in cui mangia!) ed afferma: “se la posta in gioco è alta” (la possibilità di eliminare enormi sofferenze) “appaiono davvero esili le argomentazioni a favore dei divieti alla ricerca incentrate sulla personalità dell’embrione”. Insomma, il pensiero dell’autore potrebbe essere così meglio chiarito: per provare ad eradicare la sofferenza di persone affette da malattie al momento incurabili è un bene utilizzare embrioni umani distruggendoli, ovviamente per scopi scientifici, cioè nobili.

Forse al "filosofo" Masserenti mancano alcuni principi logici, anche se lo dubito, piuttosto aderisce a quella sofistica contemporanea così radicata nella mentalità di tanti. In effetti bisogna ricordare che la scienza medica, la biologia, l’embriologia dello sviluppo, la medicina molecolare hanno riconosciuto l’embrione quale essere umano unico e irripetibile. Centinaia di studi scientifici, ricapitolati nel classico libro di testo Developmental Biology (capitolo 7, pagina 254) di Scott F. Gilbert, affermano, senza ombra di dubbio (per cui il “in dubiis libertas” proposto dall’autore pi+u avanti a pagina 54 non funziona!), che: “con la fertilizzazione inizia un nuovo organismo vivente”.

Massarenti vuol essere talmente CAUTO da voler eliminare esseri umani a migliaia per vedere se le cellule staminali embrionali avranno qualche futura applicazione terapeutica! Insomma, evviva la cautela!

MALFORMAZIONI DA CURARE E NON DA PROVOCARE

di: DR. JEAN MARIE LE MENE, PRESIDENTE DELLA FONDAZIONE JEROME LEJEUNE - PARIGI 

Io, quale presidente della Fondazione Jérome Lejeune, non saprei trattare meglio l’argomento se non ispirandomi all’esperienza stessa del Professor Jeéome Lejeune nella sua scoperta della trisomia 21 e dei lavori di ricerca che sono proseguiti in seno alla Fondazione che ora porta il suo nome. 

1- L’IGNORANZA PROVOCA LA PAURA 

Quando questa anomalia cromosomica, che è la trisomia 21 non era ancora nota se non sotto il nome di mongolismo, l’ignoranza era responsabile di due paure fondamentali, la paura dell’origine e la paura della trasmissione. 

A) La paura dell’origine 

La non conoscenza dei bambini “mongoloidi” risale molto in là nella storia. Il loro aspetto fisico così particolare per molto tempo ha fatto pensare che avessero una certa parentela con gli abitanti della Mongolia, da cui il nome di mongolismo. È così che un inglese, un certo Sir Langdon Down, nel 1866 ha descritto ciò che chiamava “idiozia mongoloide”. Per di più, il suo razzismo non era limitato all’Asia Centrale, egli descrisse anche una “idiozia negroide” e una “idiozia malesica”. Sola sopravvissuta l’idiozia mongoloide poiché, evidentemente, aveva il più grande numero di soggetti. 
È vero che un altro autore, francese questa volta, Seguin, dal 1844 aveva descritto la malattia con il nome di idiozia “furfuracea”, cioè in relazione con questo cereale che è la crusca, forse in riferimento alla mollezza delle bambole di crusca. Ma l’idiozia mongoloide descritta si traduceva meglio, in apparenza meno, per la sua evocazione razziale, all’aspetto fisico dei malati. Tuttavia, la classificazione di Down posa su un grave errore scientifico che consiste nell’ammettere che questa malattia mentale proveniva dalla regressione di certi caratteri tipici di una razza verso quelli di un’altra razza. Il mongolismo, per più di cento anni, fu dunque assimilato ad una tara razziale. Basato su basi talmente grossolane, era evidente che il corteo di malformazioni fisiche e soprattutto dei ritardi mentali che accompagnavano lo stato della persona colpita da mongolismo diventavano l’oggetto di una indifferenza o di un disprezzo della scienza che niente sembrava potesse attenuare. Questo bambino è mongoloide, dunque è di una razza che regredisce, dunque non c’è niente da fare. Non è improprio affermare che la scienza ha vissuto sotto l’influenza di L 
angdon Down, uno dei suoi ultimi razzisti a priori che ha condotto logicamente alla chiusura terapeutica. 
Niente di stupefacente non più nella maggior offerta che è stata fatta sull’origine dubbiosa del mongolismo. Si è anche trovato comodo sospettare la provenienza dei mongoloidi da un passato di alcolismo o persino sifilico. Non bisogna dimenticare che i primi lavori del Prof. Jérome Lejeune sul mongolismo sono stati finanziati a partire dai fondi inizialmente destinati per il trattamento delle madri di bambini mongoloidi per la sifilide. Ciò non significa nulla nei fatti se non che i mongoloidi sono stati persino l’oggetto di compassione e devozione notevoli. Ma era una compassione senza speranza. Il movimento regressivo verso una razza inferiore è ineluttabile – di supercrescita connotata da un forte sentimento di colpevolezza – ma che cosa si è potuto fare, o non fare poiché questi poveri bambini sono così? 

B La paura della trasmissione 

Nel caso di mongolismo, la paura della trasmissione di un messaggio ereditario di cattiva qualità pesa sui genitori e sulla società. 
I genitori potevano esitare a proseguire sul cammino della procreazione, timorosi di dar vita ad altri bambini colpiti dallo stesso handicap. La società, da parte sua era tentata di dare uno sguardo inquieto, guardare con rimprovero, le famiglie che avevano già dato vita ad un bambino mongoloide e che, niente di meno, perseveravano nell’estensione della loro discendenza. La responsabilizzazione, la colpevolezza, la vergogna schiacciavano molto spesso le famiglie. La loro dignità e la loro responsabilità erano ferite. Niente e nessuno erano in grado di alleviare questa sofferenza, mantenuta dalla paura sociale, lei stessa figlia dell’ignoranza. 

2- LA PAURA PROVOCA L’ESCLUSIONE 

La paura, che ci pone in una situazione di aggressività, suscita naturalmente una reazione di difesa. Di fronte all’handicap mentale di origine genetica rappresentata dalla trisomia 21, la società ha pensato di doversi difendere praticando l’esclusione in utero dei bambini colpiti. I recenti sviluppi delle tecniche di procreazione medicalmente assistita permettono ora di considerare l’esclusione in vitro dei bambini affetti. Nei due casi, la società cerca tuttavia di dissimulare la sua paura dietro alle buone domande e alle cattive risposte. 

A L’esclusione in utero 

Si tratta della diagnostica prenatale (DPN), la domanda posta è quella della nascita dei bambini handicappati. Come fare affinché tutti i bambini nascano sani? A questa domanda legittima, la DPN non propone una risposta ma la seguente diversione: per sopprimere l’handicap, sopprimono l’handicappato, con l’eutanasia fetale. Fin da allora, la messa in opera del DPN non può condurre che ad una inversione completa delle priorità. Invece di cercare di capire l’handicap per arrivare a guarire il bambino, si sopprime il bambino con il rischio di continuare ad ignorare tutto dell’handicap. Si punta tutto sulla diagnostica e nulla sulle terapie, con la volontà deliberata di restare in una mortale ignoranza. Il caso di depistaggio della trisomia 21 è la figura simbolica. Così, l’aiuto pubblico francese riservato all’unico laboratorio che fa ricerca fondamentale sulla trisomia 21 ammonta ad un milione circa all’anno su una popolazione di cinquantamila trisomici. I fondi destinati alla diagnosi generale della trisomia 21 (marcatura di serie, amniocentesi, ecografia, aborto) sono valutati intorno ai cinquecento milioni all’anno. Mezzo miliardo di franchi per eliminare cinquecento trisomici prima della nascita, un trisomico su due. Lo sforzo pubblico di ricerca in favore di ogni trisomico vivente è dunque di venti franchi. La volontà di sradicamento di ogni trisomico costa un milione. Ma mai si è evocato il costo della sparizione della malattia con l’aiuto alla ricerca. 
È più il bisogno di insistere nella perversione di un tale sistema? Si. Per di più questo sistema, che un giornalista ha qualificato “test di ogni angoscia”, non dà soddisfazione a nessuno. Né alle settecentocinquantamila donne incinte che si preoccupano inutilmente nel 98% dei casi, né alle famiglie che allevano un bambino trisomico che diventa un vero sopravvissuto (per indicare quelli che sfuggono tra le maglie della rete, non si parla di tasso di fuga?) ne ai medici che stanno molto male di fronte a questo ruolo che si fa tener loro. Un ruolo che li allontana sempre più dal gesto medico e che conduce spesso davanti ai tribunali medici accusati non per non essere riusciti a guarire, ma per non essere riusciti ad uccidere. Gli unici che tirano con profitto, il loro spillo dal gioco sono i fabbricanti di test di depistaggio. 

B L’ESCLUSIONE IN VITRO 

La diagnostica pre-impianto (DPI) pretende di dare un’alternativa all’alternativa precedente. Come evitare l’eutanasia fetale dei bambini handicappati? Tra parentesi, questa domanda mostra bene che l’esito proposto alla fine del DPN non era soddisfacente poiché tenta di sfuggirci. E’ perché, la soluzione proposta dalla DPI per evitare di uccidere in utero i bambini handicappati è di concepire in vitro solo dei bambini sani. Al posto di estrarre, uccidendo, un bambino non desiderato dal ventre di sua madre, l’idea consiste nell’impiantare solo bambini desiderati. Ancora una volta, si è in presenza di una diversione poiché evidentemente, la soluzione non è quella buona. 
L’inversione che ne risulta mostra che non è più la medicina che assiste la procreazione ma la procreazione che assiste la medicina. L’arte medica non migliora in niente. L’uovo fecondato è selezionato in una specie di covata o è semplicemente la legge dei numeri che va a fare la qualità. Poiché il ciclo della donna sarà stato stimolato, con tutti i rischi che ciò comporta e che non sono sempre riconosciuti, ci saranno parecchi ovociti prelevati, fecondati in vitro e dunque un numero sufficiente di embrioni. Tra i quali si potrà effettuare la selezione dei migliori, l’eliminazione dei meno buoni e la conservazione dei “soprannumerari”. In altri termini, l’aborto del feto in utero è sostituito, con la DPI, l’aborto dell’embrione in vitro, in condizioni in apparenza meno dolorose ma in realtà molto più perverse. 
In effetti non c’è alcun limite a priori all’espansione della lista delle deviazioni. L’unico limite è tecnico. Lo testimonia questa iniziativa del premio Nobel James Watson (struttura del DNA) ammettendo che in futuro, se si potesse scoprire l’omosessualità nel genoma, sarebbe favorevole alla soppressione degli omosessuali, non in modo coercitivo certo, ma sul semplice fondamento della libertà della donna. Dopo tutto per una donna, dar vita a un bambino che non potrà darle dei nipoti, non sarebbe un motivo sufficiente di angoscia? Curiosamente queste proposte sono state considerate scandalose e hanno suscitato delle vigorose reazioni. Ma Watson ha giustamente risposto: “noi ammettiamo già che la maggior parte delle coppie non desidera avere un bambino trisomico”. 
Degli esempi recenti ci mostrano che genitori sordi chiedono un DPI sui loro embrioni concepiti in vitro per reimpiantare un embrione lui pure colpito da sordità, o meglio ancora la procreazione in vitro di una quindicina di embrioni con lo scopo di ottenere un embrione sano che servirà per il trapianto della sorella maggiore malata. 

3) LA SCIENZA COMINCIA DALLO STUPORE (ARISTOTELE) 
Sempre nell’esempio della trisomia 21, noi vedremo, come Aristotele, che la vera scienza comincia dallo stupore. Dal momento della scoperta della malattia al momento della sequenza ci sono più di quaranta anni. 

A La scoperta della trisomia 21 

Per Jérome Lejeune la scienza aveva iniziato dallo stupore. Ci ricordiamo che il numero esatto dei cromosomi della specie umana era appena stato scoperto nel 1956. Stupore davanti ad un fatto straordinario della natura, che nessuno aveva osservato prima di Jérome Lejeune. Scopre nel 1959 che i bambini detti mongoloidi hanno un cromosoma in più nel ventesimo paio, ciò porta il loro patrimonio genetico da 46 a 47 cromosomi. 
Stupore di fronte all’effetto di questo cromosoma di troppo che si esprime in un contrattempo del metabolismo, come la nota musicale imprevista in un accordo. E’ ciò che spiega come mai le persone trisomiche soffrono di ritardo mentale e possiedono questo aspetto fisico così particolare. Stupore di fronte al più frequente degli incidenti cromosomici, la prima causa di ritardo mentale che, con grande disperazione dei familiari, resta senza soluzione terapeutica. 
L’interesse di questa scoperta inedita è immensa. Dimostra che l’anomalia cromosomica della trisomia 21è accidentale, distrugge la tesi della degenerazione razziale, che i nazisti avevano invocato per eliminare gli handicappati. Permette di considerare la nascita di altri bambini nella stessa famiglia. Dimostrando che nelle malattie per errore cromosomico, la qualità del messaggio ereditario dimora invariato, ma che l’unico cambiamento è di tipo quantitativo: Jérome Lejeune traccia già delle prospettive terapeutiche. Come regolare la velocità di reazioni biochimiche troppo rapide delle persone trisomiche 21, per rendere non soltanto udibile, ma bella la sinfonia della loro intelligenza? 

B La sequenza del cromosoma 21 

Il 18 maggio 2000, un’équipe internazionale di ricercatori americani, giapponesi, svizzeri, francesi e britannici ha pubblicato sulla rivista “Nature” l’annuncio della sequenza del cromosomo 21. Questo cromosomo, come gli altri, è costituito in gran parte da una molecola con forma di doppia elica a spirale che serve da supporto all’informazione genetica. Ogni pezzo di questa elica è formata da una lunga sequenza di lettere dell’alfabeto genetico. 
La sequenza consiste nello scoprire l’ordine in cui queste lettere sono allineate in modo da ricostruire l’informazione genetica contenuta in questo cromosomo. Una sequenza (o una “parola”) di parecchie migliaia di lettere per formare un gene. I ricercatori sono riusciti ad identificarne 225 sul cromosomo 21. Tra questi geni solo 127 sono noti, cioè la proteina, attraverso la quale essi codificano, è identificata, quindi 98 non sono ancora identificati e infine 59 geni sono inattivi. 
Qui, lo stupore è stato scoprire che il cromosomo 21 comprendeva molti meno geni di quanto si potesse immaginare. Occorre ora finire di identificare i geni e soprattutto trovare tra i geni quelli che sono coinvolti nella trisomia 21. L’identificazione dei geni responsabili della malattia – probabilmente assai numeroso – serviva allora da punto di partenza utile per i ricercatori nello sviluppo di nuovi trattamenti e non soltanto all’interno della terapia genica, ma ugualmente nella messa a punto di medicine tipo, confermando così l’intuizione del Prof. Lejeune. 

4 LA CONOSCENZA SI CONSEGUE CON L’AMMIRAZIONE 
“Il male è per l’amore ciò che è il mistero per l’intelligenza” ha scritto la filosofa francese Simone Weil. E’ questo mistero che bisogna comprendere. E’ questo male che bisogna combattere. Insieme. 

L’AMMIRAZIONE DEL MISTERO DELL’INTELLIGENZA 
La trisomia 21 è la causa più frequente della debolezza dell’intelligenza, cioè è l’affezione più umana nella misura in cui essa non colpisce che l’uomo, nella sua caratteristica fondamentale che lo distingue dalle altre specie del creato. 
Ed è anche l’affezione più disumana nella misura in cui l’uomo che è vittima di questa malattia dell’intelligenza è toccato in ciò che ha di più essenziale. 
Preme dunque, per restaurare l’uomo in tutta la dimensione della sua umanità “restituire a ciascuno questa pienezza di vita che si chiama libertà di spirito”. Tale era l’ambizione di Jérome Lejeune e tale è oggi l’ambizione della fondazione che porta il suo nome. 

AMMIRAZIONE DEL MISTERO DELL’AMORE 
Ma non si restituisce la libertà di spirito a un “non-essere” o a un essere al quale non si vuole alcun bene. Non si può sperare che di guarire qualcuno che si ama. Il nostro primo dovere è guardare l’altro così com’è, di guardare in volto, non di squadrare. E’ dunque impossibile che coloro che accettano di sopprimere malati trovino mai come guarirli. Non è lo stesso mestiere. 

Allora, instancabilmente, bisogna ripetere: 
La trisomia 21? E’ un uomo. 
Si deve verificare la sua conformità prima della nascita? 
Non c’è niente da fare per curarlo? 
Il feto non è che un ammasso di cellule? 
L’aborto non uccide nessuno? 
Fabbrichiamo un embrione? 
Congeliamolo se è riuscito? 
Diamolo alla vivisezione se è fallito? 

Un uomo è un uomo, è un uomo! Questo slogan che condusse gli USA ad abolire la schiavitù deve essere la Bibbia del genetista. 

“Se la natura condanna alle volte, il ruolo del medico non è di eseguire la sentenza, ma di cercare sempre di commutare la pena”. 

“Lasciatelo vivere, ci penserà lui stesso”.





giovedì 8 marzo 2012

Renzo Puccetti: intervento alla tavola rotonda della Marcia Nazionale per la Vita

Mi è stato chiesto di svolgere alcune riflessioni circa quelli che possono essere i programmi del popolo della vita. Cercherò di farlo tralasciando le questioni teoriche, ma prendendo in considerazione quello che ho imparato dall’esperienza sul campo nel corso del mio servizio in questa battaglia.

Credo che la prima cosa sia proprio questa: prendere coscienza che siamo in guerra. Hanno dichiarato guerra all’essere umano. È una guerra vigliacca, è una guerra spietata condotta contro i più deboli, l’essere umano nel grembo della madre e quello fragile, sofferente, impaurito, l’essere umano nella malattia. Quella mentalità mortifera che si sperava sepolta sotto le macerie fumanti della seconda guerra mondiale, si è dimostrata capace di rigenerarsi assumendo le fattezze di un nuovo totalitarismo, quello relativista, un totalitarismo capace di promuovere quello che acutamente è stato chiamato il terrorismo dal volto umano. Perché è importante capire che siamo in guerra? Perché capirlo porta con sé alcune conseguenze che mi permetto di esporvi brevemente:

Siamo tutti chiamati a combattere questa guerra. Nessuno si illuda di essere al sicuro: certo, l’aborto non può colpire direttamente noi che siamo già nati, ma può piombarci in casa, può entrare nelle nostre famiglie e segnarci per tutta la vita. E a ciascuno di noi, prima o poi, sarà la stessa natura umana a ricordare che siamo solo creature; ci verrà rammentato attraverso la malattia, la dipendenza dall’altro, la perdita di quella capacità di autodeterminazione che sembra essere divenuta l’unica condizione che rende la vita degna di essere vissuta. Che ci piaccia o no, la vulnerabilità sarà un ospite che busserà alla porta di ciascuno di noi. Come la società ci tratterà in quel momento dipende anche dall’impegno e dall’ardore con cui ci siamo battuti in questi giorni.

La seconda buona ragione per comprendere che si tratta di una guerra è che questo ci aiuta a realizzare la necessità di combattere senza lasciare sguarnito alcun fronte: quello filosofico, quello più immediatamente tangibile dell’assistenza alle persone nel bisogno, quello scientifico, il fronte giuridico, comprendendo in quest’ultimo ambito anche quello delle aule di tribunale. Bisogna riconoscere che questa postazione strategica in ampi settori è sotto il controllo del nemico ed ho come l’impressione che sia subentrata una sorta di rassegnazione o di paura. Spesso ci si limita alla mera difesa.

Non dico che non vi sia saggezza nel sapersi trattenere e temporeggiare quando si intuisce che un attacco non avrebbe alcuna speranza di vittoria, ma sto parlando di qualcosa di diverso, sto parlando della rinuncia a qualsiasi strategia volta a mettere in discussione la supremazia dei nemici della vita nelle aule della giustizia civile e penale. Perché non si ha notizia di alcuna azione legale nei confronti di quei medici che violano quella legge che gli stessi abortisti hanno promosso e dicono ad ogni pie’ sospinto di volere difendere? Non si tratta di numeri esigui: una ricerca condotta su un campione di poco meno di mille donne ha evidenziato che la metà di quelle che abortiscono non hanno ricevuto alcun sostegno. Mi ricordo di avere letto qualche tempo fa di un consultorio che ha rilasciato il documento per abortire con procedura d’urgenza ad una donna che aveva la non secondaria caratteristica di non essere incinta. Vi prego di fare uno sforzo ed immaginare con quale cura sia stata visitata e con quanta abnegazione le siano state presentate tutte le soluzioni per evitare l’aborto, così come prescritto dalla legge abortista italiana. Allora ci si chiede: che fine ha fatto quel caso? Qual è stata la sua conclusione processuale? E se è vero che casi come questi sono molti, perché non viene organizzata una sistematica struttura legale che denunci tali comportamenti e assista gratuitamente in sede processuale le donne aiutando così anche i loro bambini? Quando i medici e i farmacisti coraggiosi che per coscienza rifiutano di eseguire richieste volte a provocare la morte del concepito verranno difesi da un tale ufficio legale?

In una guerra la scelta del campo di battaglia è uno dei punti essenziali. Nella guerra per la vita è fondamentale battersi per un terreno legislativo che sia il più favorevole possibile alla causa della vita. Questo lo si fa difendendo le buone leggi esistenti ed attaccando le cattive leggi che ci sono. È stato detto che le leggi che facciamo oggi saranno la moralità della gente di domani e c’è molto di vero in questo: quello che è legale, è facile pensare che sia anche una cosa buona. Ma la storia ci ha ampiamente dimostrato che le più grandi infamie ed i più terribili abomini sono stati compiuti nel rispetto delle leggi. Allora nella battaglia per la vita una cosa deve rimanere a tutti ben chiara: una legge che consente l’uccisione dell’innocente è una legge ingiusta e basta, non è mai una buona legge, non è mai la migliore nel suo genere. E non lo dico io, non lo dico io che non sono nessuno, lo dice la Chiesa, madre e maestra, lo dice oggi attraverso l’insegnamento di Benedetto XVI che non si stanca mai d’indicare la vita tra i principi non negoziabili, e lo diceva ieri attraverso la voce di quel Papa che abbiamo desiderato detto Santo e che poche settimane fa è stato proclamato beato, quel Papa che giustamente è stato definito il Papa della vita, per il suo incessante, irremovibile impegno nella promozione e difesa della vita umana. Allora un movimento pro-life deve battersi come un leone per leggi giuste, non auto-mutilarsi preventivamente, non auto-censurarsi perché il fine ultimo è quello di raggiungere un compromesso. Certo, è vero, viviamo in una società largamente scristianizzata e dipendente dalla mentalità edonistica ed utilitaristica; lo sappiamo, nessuno qui vive su Marte, ma proprio per questo chi ha la responsabilità non soffochi le voci di quanti s’impegnano nella società per promuovere la cultura della verità della vita umana tutta intera; una tale condotta mi pare anche strategicamente perdente: non ho mai visto strappare buoni accordi da chi si siede al tavolo delle trattative con pavida e sfiduciata arrendevolezza.

Siamo in una guerra ed il nemico usa la disinformazione. Fornisce dati fasulli e su quelli comincia a costruire le sue falsità; per questo si devono controllare le fonti. Lo so per esperienza diretta, è un lavoro sfibrante, ma abbiamo prestigiose istituzioni scientifiche, eccellenze accademiche e forse è l’ora che qualcuno, garbatamente, le prenda per un orecchio affinché comincino a fare quello che possono e sanno fare. Si fa un gran parlare di sindrome post-abortiva. Molte ricerche giungono da oltre-oceano per asserire che la sindrome post-abortiva non esiste; sostengono che le donne che stanno psicologicamente male dopo avere abortito starebbero male comunque, perché il loro malessere non sarebbe dovuto all’aborto, ma alle circostanze della loro vita pre-esistenti l’aborto. Sono ricerche spesso finanziate da organizzazioni abortiste, pubblicate su riviste scientifiche schierate sul fronte abortista, redatte da autori favorevoli all’aborto, talora militanti in associazioni abortiste.

Non di meno conosciamo molti psicologi e psichiatri che possono attestare il dolore spirituale ed il malessere psicologico di molte donne direttamente collegati all’aborto volontario. Moltissime di queste stesse donne sono state consolate ed assistite a vario livello da persone legate al mondo pro-life. Sappiamo che la sindrome post-abortiva esiste, ci si è presentata davanti agli occhi in carne ed ossa. Perché allora non è mai stato finanziato e supportato uno studio per verificare in modo certo queste dinamiche, perché non si è fatto alcunché di tangibile per affrancarsi da una produzione scientifica per larghissima parte posizionata su un’ostinata e preconcetta opposizione al diritto alla vita del concepito? Perché non si conduce ad esempio uno studio che dimostri una realtà che ben tutti conosciamo: contrariamente a quanto attestato nel documento per abortire rilasciato dai medici, le donne che rinunciano all’aborto non hanno alcun serio pericolo per la loro salute psichica. Nessuna di loro è impazzita, nessuna di loro ha mai recato alcuna offesa alla propria creatura, nessuna di loro si è suicidata. Dopo un tale studio, come si potrebbe negare il finanziamento ai centri di assistenza alla vita? Immagino che sarebbe alquanto imbarazzante per gli amministratori della mia regione, dove si erogano col finanziamento pubblico le visite omeopatiche, continuare a tenere fuori i volontari per la vita dai consultori e dagli ospedali dove si eseguono gli aborti.

Siamo in una guerra ed il nemico non è un fumo, non viene dall’iperspazio, è il consegnarsi al male, consapevolmente o meno, di molti uomini e donne. La malvagità pensa con un cervello umano, si diffonde con parole di uomini e di donne, fa proseliti attraverso il loro agire. Se siamo combattenti, se siamo in trincea, abbiamo un inalienabile diritto a pretendere che nessuno dei nostri generali faccia entrare il nemico nel nostro accampamento: i buoni pastori danno la vita per il proprio gregge, non fanno entrare i lupi nel recinto, nemmeno quando questi sono vestiti da agnello. Non ci è stato chiesto di essere sprovveduti, bensì candidi come colombe e prudenti come serpenti.

Se saremo la milizia per la vita, allora dovremo ricordare che vi sono le specializzazioni. Non tutti devono fare tutto, ma tutti possono fare qualcosa e sforzarsi di farla bene. Parli chi ha la competenza per farlo. Così come l’abito non fa il monaco, la bontà d’animo non ti dà automaticamente la capacità di resistere all’argomentare di un barone della scienza o di un astuto conoscitore delle tecniche della comunicazione. Si combatte quando si è pronti a farlo, dopo essersi addestrati a farlo, si deve essere consapevoli dei propri mezzi, dell’interlocutore che dovremo affrontare, dell’argomento che verrà trattato, del contesto in cui avverrà il confronto; si deve imparare a resistere alla propria vanità, talora solleticata dalla ribalta delle telecamere. Tutto questo costa fatica, lo so bene, ma quando saremo tentati dalla stanchezza, dallo sconforto perché quello che facciamo sembra non produrre il risultato atteso, in quei momenti dobbiamo ricordarci che la battaglia è già stata vinta da Qualcun altro per noi, da quel Qualcuno che ha preso su di Sé tutto il peccato del mondo per donarci la possibilità della vita eterna; dobbiamo ricordarci che non saremo giudicati sul successo immediato di quello che facciamo, ma dalla disponibilità a seguirLo. Certo, per fede sappiamo che la battaglia è già stata vinta, ma questo non è certo un motivo che potrà giustificare il nostro disinteresse o la nostra defezione. C’è un passaggio in un romanzo di De Whole che mi ha aiutato a comprendere meglio questo aspetto. Al giovane don Juan d’Austria, comandante della flotta cristiana di Lepanto, che confidava nelle grandi strutture sociali della Chiesa del tempo, il padre Juan de Calahorra nel romanzo risponde: “Le porte dell’inferno non prevarranno, lo sappiamo. Ma ciascuno di noi deve vivere come se la promessa di Cristo dipendesse da lui e da lui solo”.

Una guerra ha ben poche possibilità di successo se non è adeguatamente finanziata, se non si ricevono le risorse minimali per combatterla. È bene tenere sempre a mente che il nemico ha mezzi incredibili assicurati dalle stesse strutture dello Stato finanziate con la fiscalità generale e dai potentati economici. Alcuni anni fa una singola cena di finanziamento che vedeva la presenza del vice-presidente americano Al Gore fruttò alla locale sezione della Planned Parenthood, la potente organizzazione abortista, ben 300.000 dollari, probabilmente più di quanto la maggior parte delle nostre realtà pro-life riceveranno nel corso di un intero secolo. Questo è solo un motivo in più per usare il nostro ingegno per reperire ulteriori fondi ed usarli con oculatezza, per osare chiedere e scomodare, per fare comprendere che il volontariato è sì una bellissima cosa, il dare gratuitamente è testimonianza del cuore che si mette nelle cose, ma esso deve fornire linfa ad uno scheletro stabile, costituito da persone che con serenità possono dedicarsi a tempo pieno a difendere la vita in strutture pro-life capaci di lavorare ponendosi obiettivi, che redigono piani per raggiungerli e che rendono conto dei risultati.

Qui oggi noi abbiamo marciato, da qui, credo, debba partire l’impegno a costruire un collegamento tra tutte le tante, buone, generose realtà associative che difendono la vita. Oggi è il giorno di San Germano, se rimarremo fedeli alla retta intenzione, se saremo coraggiosi nella buona battaglia, se saremo umili di cuore, prudenti nelle scelte, disposti al sacrificio personale, se saremo davvero uniti  allora quanti oggi non sono qui rimpiangeranno di non avere marciato con noi, perché oggi, il giorno di San Germano noi abbiamo fatto sentire alto e impavido il nostro grido ai nemici della vita: “voi non vincerete mai! Voi non avrete mai il nostro silenzio, fino all’ultimo, fino a che avremo una stilla di vita!”