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mercoledì 8 febbraio 2012

Fine vita: affrontare le questioni di fondo

da: Studia Bioethica (Editoriale)


Le questioni bioetiche di “fine vita” sono senza dubbio tra le più delicate e complesse. Continuamente si arricchisce la letteratura specialistica su temi come il trattamento medico del malato in fase terminale, l’accanimento terapeutico, l’eutanasia, le cure palliative, gli hospices, ecc.

Negli ultimi cinquant’anni i problemi e i dilemmi etici in questo settore della medicina sono diventati sempre più frequenti e complessi. In buona parte a causa degli enormi progressi della medicina che offrono nuove e potenti possibilità di intervento, ma determinano spesso anche il configurarsi di situazioni difficili da gestire, sia dal punto di vista etico, sia da quello medico che da quello semplicemente “umano”.

Ma non si tratta solo di questo, come alcuni autori sembrano pensare. Aveva ragione Richard Neuhaus quando denunciava la tendenza ad affermare che i problemi controversi della bioetica sono sorti a causa dei progressi medici tecnologici, e che così facendo tentiamo di ridurre il nostro senso di responsabilità morale. 

Siamo più vicini alla realtà – diceva – se riconosciamo che i dibattiti in cui siamo immersi sono il prodotto di cambiamenti morali, culturali e politici.

In verità, le questioni di fondo dei problemi attuali sono questioni davvero antiche.

Già Platone, nella sua opera Repubblica,si chiedeva fino a che punto si dovesse far ricorso alla medicina e criticava l’atteggiamento eccessivamente aggressivo e insistente dei medici del suo tempo. Nella tradizione della teologia morale cattolica, poi, c’è un filone lungo e solido di riflessioni sull’obbligo morale di ricorrere ai mezzi necessari per la vita; obbligo che non si impone quando si tratta di quelli che venivano chiamati da diversi autori “mezzi straordinari”.

Non si può ridurre, dunque, tutta la problematica di fine vita a “accanimento terapeutico” sì o no; eutanasia, sì o no. Né la si può restringere agli ambiti ristretti della polemica sulle leggi o sulle procedure mediche da attivare o meno. Si tratta, infatti, di un ambito nel quale sono in gioco i valori più profondi ed importanti della persona umana. Davanti alla malattia in fase terminale, alla sofferenza e all’avvicinarsi della morte, l’essere umano si confronta necessariamente con le domande eterne sul senso della vita, del dolore e della morte. È in gioco, in queste questioni, la nostra comprensione dell’essere umano, del valore della sua vita, del significato che vogliamo dare alle parole “dignità” e “libertà”.

Daniel Callahan lamenta che il dibattito attuale intorno all’eutanasia non affronti quasi mai il problema del significato della morte nella vita umana.Effettivamente, gli autori favorevoli all’eutanasia rarissimamente dedicano qualche pagina ad una riflessione sul significato della morte, o sull’eventuale valore della sofferenza nella propria vita, o semplicemente sul senso della vita stessa. Si potrebbe pensare che una trattazione più o meno attenta dell’eutanasia, in quanto diritto ad una “morte degna”, dovrebbe includere lo sforzo di comprensione dei valori in gioco. E, invece,“silenzio stampa”. Se parlano di morte è per affermare il diritto a procurarla liberamente quando la vita non da più speranze. Se menzionano il termine “dignità” è per spiegare
che certe vite ne sono ormai prive e che l’unica via d’uscita è la morte; se fanno riferimento al dolore e alla sofferenza è per sostenere che nessuno dev’essere costretto a soffrire. Quasi mai un cenno di approfondimento antropologico, di indagine sul senso umano di quelle realtà.

In parte, questo “vuoto” è dovuto ad una grave “lacuna antropologica”. Dietro alla proposta dell’eutanasia c’è quasi sempre una visione della persona umana così vuota e banalizzante da rendere difficile un discorso minimamente articolato. D’altronde, confrontandosi con quelle dimensioni antropologiche si corre il rischio
di intravedere degli spazi di senso anche là dove non si vuole che ci sia, per poter giustificare l’eutanasia. Si corre il rischio di trovare delle ragioni di fondo per la vita anche in situazioni di sofferenza e di inutilità sociale, non riducibili al “per me la dignità consiste nel poter andare al bagno da solo”, di Montanelli.

Noi pensiamo che una tematica così densa e così delicata, esiga la serietà della ricerca antropologica di senso. Perciò stesso, i testi presentati in questo numero vanno aldilà delle questioni meramente tecniche e giuridiche.Dopo aver riflettuto sulle questioni etiche e prima di affrontare alcuni discorsi di carattere legale, apriamo lo sguardo anche verso le tematiche di carattere spirituale e religioso.

Nessuna pretesa di completezza su un tema così vasto. Semplicemente il desiderio di offrire un contributo alla riflessione,anche sulle questioni di fondo.

Gonzalo Miranda, L.C.
Direttore Studia Bioethica

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