Questo Blog nasce con l'intento di promuovere e difendere il diritto alla vita di ogni essere umano dal concepimento alla morte naturale, come fondamento di tutti i diritti umani e quindi della democrazia e, già ampiamente, di dibattere i temi della ricerca scientifica per quanto attiene alle ricadute sulla vita dell’uomo e della società.



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venerdì 4 maggio 2007

ACCOMPAGNARE LA VITA FINO ALLA MORTE


La verità è un concetto che non si lascia mai afferrare in maniera diretta, ma solo per via riflessa, di solito in maniera simbolica. Sovente la verità ci si presenta come un quid inafferrabile, suscitando un sentimento nouminoso, che aumenta in noi il desiderio insopprimibile di volerla afferrare. La realtà ultima, può essere definita come un qualcosa di accessibile, anche se spesso inesplicabile, dato che non si può facilmente dire ciò che nel nostro intimo è ignoto, anche se paradossalmente si può dire che non esiste nulla di più familiare poiché in fondo è in essa che consiste il nostro esserci fisicamente e spiritualmente.


Le rose d’Atacama sono delle piccole rose che una volta l’anno si avventurano fuori dalla terra: una sola volta l’anno, un giorno ben preciso, esse osano mostrarsi al mondo intero, ma nessuno le guarda mai, perché queste piccole rose crescono in un luogo del deserto cileno piuttosto impervio, che pochi osano affrontare. Queste rose del deserto possono ben essere una rappresentazione metaforica di tante persone che vivono gli ultimi momenti della vita nel deserto della loro solitudine. Forse qualche volta, in ospedale, in clinica, in casa, ci siamo trovati accanto a qualcuno che stava morendo, avvertendo la sensazione della fine, dove il silenzio e la solitudine oltrepassano i confini della terra e la caducità del tempo, per lasciare emergere una parola vera. Come si può d’altronde, intendere la forza, la fecondità del silenzio dell’altro, o sentire l’immensità della sua disperazione se non riusciamo più ad ascoltare il silenzio che ci abita? Solo in una fertile solitudine, quella che sconfina dalle pur gioiose compagnie e dalla prossimità dei volti familiari per scrutare ed ascoltare gli abissi del se, si può udire la voce segreta ed indescrivibile dell’agnizione, del momento in cui la sofferenza costringe l’uomo ad interrogarsi e, sola, riesce a svelarne l’aspetto più autentico. Il momento della morte non trova un suo linguaggio perché si radica nell’intimo, in quel dolore lacerante della separazione: tra la vita e la morte diventa così in primo luogo presenza e dialogo. Per avvicinarsi in questa terra priva di cittadinanza, credo sia necessaria una forma di comunicazione vera in uno scambio gratuito e necessario, un cammino di spogliazione per addentrarsi nei recessi più intimi e sconosciuti del proprio essere, rinvenibili in quella piccola isola ai confini estremi della vita per apprendere dai morenti la nostra finitudine e il dono della vita vissuta nella fraternità umana, nella solidarietà tra chi parte e chi resta. Tutto ciò può spesso suscitare, in chi abbia vissuto la morte di una persona profondamente amata, un sentimento disarmante di nostalgia e forse , a volte, di sconfitta, per non aver saputo trovare un sentiero per quel territorio e lì vivere anziché subire il morire dell’altro. La visita ad un morente può diventare così l’occasione per ritornare a se stessi, attraverso una riflessione che conduce dal pensiero alla coscienza e dal vissuto al vivente:quasi un’opportunità per risvegliarci alla totalità di noi stessi, passo quanto mai ovvio e quanto mai disatteso nell’attuale modo di intendere la sofferenza .Quanto più ci si inoltra verso i confini di questo territorio, tanto più ci si sente sollecitati a rintracciare significati esistenziali che vanno ben oltre le vie di accesso descritte dalla medicina. La morte implica un parlare a più voci, perché la morte non è un problema, è un mistero.


Si deve sottolineare che anche il momento della fine della vita, può costituire una prova particolare dell’esperienza che si fa del proprio vivere in-carnati: il corpo si sottrae alla volontà e impone la sua debolezza e la sua fragilità come vissuto dell’esistenza. L’immagine del corpo è essa stessa compromessa e rimanda al soggetto un’immagine deformata di se. Qui la pazienza, l’ascolto, la speranza della prossimità possono aiutare la persona ad abitare la propria storia senza essere invasi dalla disperazione. Se sovente oggi la morte è vissuta diversamente, è perché viene deprivata di quell’ultimo sguardo, guardata da lontano ed anche allorché si cerca di ‘patire’ la morte altrui e ci si lascia coinvolgere, questo straordinario motus animi non ci dice nulla su che cosa sia il morire, pur riuscendo appena a toccare l’esperienza vissuta della comunicazione impossibile. Non si può raffigurare la morte ma solo il morire, cioè la vita sia pure al suo limite estremo se non come atto interumano, se non come uno dei momenti più autentici di quella inevitabile polarità intersoggettiva, che rimanda alla grande incognita, scalfita nella carne stessa dell’uomo, nella costitutiva ambiguità del suo essere nel mondo.


E’ necessario avvicinarsi in modo penetrante alle soglie del mistero stesso della vita e della morte nel loro divenire, è necessario però farlo, non come neutri spettatori, ma come esseri capaci di saper contemplare con umiltà, saggezza e coraggio, in silenzioso ascolto, l’accecante luminosità che ne deriva, separando l’amorosa partecipazione dalla gelida osservazione, la carità dall’oscena indiscrezione per accompagnare il morente, in fraterna comunione, fino all’altra riva, fino alla soglia dell’inconoscibile, in quella solitudine sonora dell’ultimo respiro, subito invasa da un’immensa pace e serenità, ultima fessura… tra la vita…e la morte.


L' Ufficio Stampa dell'Associazione Scienza & Vita di Latina

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