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giovedì 17 aprile 2008

JUNO CI INSEGNA A SORRIDERE, VIVERE E FAR VIVERE

di Giorgio Demetrio



Fagiolo, gnometto, coso: Juno ha sedici anni e non ci pensa a chiamare “feto” il pargolo che gli cresce nella pancia. Non è ancora il tempo per il college e i suoi unici pensieri sono i colori della maglia, il chewingum più profumato e la Gibson che suoni meglio di una qualsiasi chitarra da falò. Non lo chiamerà mai “feto” perché lei ha la leggerezza (non l’ingenuità) di qualsiasi sedicenne, e allo scientismo di certi camici che la inviterebbero a “erudirsi”, Juno risponde con il coraggio semplice di una ragazza che non si fa dettare le priorità dal Bignami del Sessantotto: per lei è naturale difendere la scelta di tenere il bimbo, portando avanti la gravidanza con quella saggezza che non appartiene a chi si “sente più grande” della sua maglia e della sua Gibson. O a chi chiama “feto” il pargolo, dall’alto di un camice che guarda con fastidio ideologico la ragazzina intenzionata semplicemente a far nascere una vita. Nel 2008, però, grazie ai medici radicali (pannelliani o progressisti che siano) e ai cartelli della Bonino di quarant’anni fa, anche la natura è diventata “reazionaria” e “clericale”: merito di una controcultura che si è radicata a forza di strilli, cortei e cattedre compiacenti, trasformando il dato ideologico in prassi scontata e l’atto di natura in comandamento religioso.
“Juno” è un film splendido nella sua trasparente linearità; non vuole rappresentare un manifesto politico tanto è evidente la scelta di raccontare una storia straordinariamente ordinaria. Il profilo resta basso, il budget conta pochi denari, i volti non sono i più noti di Hollywood, ma l’idea, quella sì, è dirompente e trasforma un prodotto minimalista in un film da Oscar, con recensioni fiume e tappeti srotolati ai piedi di autori e protagonisti. “Juno” non è nato come un proclama di celluloide da proiettare negli oratori ed è diventato un caso perché la penna leggiadra e politicamente scorretta di una ex spogliarellista ha deciso di raccontare quanto di più lontano (e di più vicino alla gente che non ha tempo per leggere Marx e ascoltare Cappato) ci fosse dalle autoreggenti zeppe di dollari e gli strusci contro un palo nei night di provincia. Fantastica Diablo Cody, targa di battaglia di Brook Busey, la lap dancer con il genio della scrittura che torna a farci sorridere (riflettendo) con un canovaccio lontano dalle seduzioni del male. Strameritava l’Oscar e non è un caso che a dirigere la sua storia sia stato quel Jason Reitman già splendidamente impopolare grazie al gioiellino d’esordio “Thank you for smoking”.
A smontare la tesi del film “beceramente orientato”, del resto, c’è pure la scelta di Juno di finire la gravidanza ma di non tenere il bimbo: il “fagiolo” andrà a una coppia che dovrà passare quella specie di test di solidità coniugale, pensato da Junbruco (come la chiamano), fatto di garanzie prima di tutto affettive che i nuovi genitori dovranno assicurare al piccolo. Un’ulteriore prova della commovente “superiorità” di una ragazzina che, pur parlando di cose da sedicenne, pensa e agisce con la lungimiranza di un vecchio saggio. Altro che camici bianchi e certezze radicali, la Nostra è una meravigliosa donna in “miniatura”, profondamente femmina come ne esistono poche a questo mondo, e non già una classica militante prolife, l’aggettivo che fa impazzire la truppa dei critici progressisti. A loro il film piace molto, ma un po’ tutti sentono il dovere di rovinare i loro pezzi (magari conditi da riflessioni cinematografiche di gran valore) con la puntualizzazione tutta politica che gli mette al sicuro la coscienza vestita con l’eskimo: le Aspesi e le Detassis che esaltano la pellicola, che però non ha nulla da spartire con le “cupe battaglie fondamentaliste”, fanno sinceramente compassione. Per non parlare del “corpo deformato dalla gran pancia” evocato da Lietta Tornabuoni sulla Stampa: quando la volgarità lessicale non conosce pudore. Piuttosto bisognerebbe ricordare alla signora Tornabuoni che ella può pontificare su un giornale grazie a quella “deformità”, e ci si augura che non applichi le stesse definizioni a quei “deformi” che il partito radical-progressista vorrebbe selezionare con filtri mostruosi di marca eugenetica.
Lorsignore convinte della propria superiorità antropologica continuano a dispensare (e a negare) patenti di dignità senza rendersi conto di apparire così ideologicamente “ortodosse”, e quindi, ridicole. Mai un filo di libertà critica, mai una vena di anticonformismo che renda imprevedibile la solita recensione plasmata sui dogmi della “rivoluzione culturale”. Tutte frecce che sarebbero piovute anche se non ci fosse stato Ferrara e la sua moratoria, ma col direttore del Foglio che predica di Vita e buonumore le punte degli strali sono state ancora più aguzze. Ha sbagliato in pieno l’Elefantino a fare una lista di cui sapeva il fallimento: l’ei fu socialista è stato votato solo da 135mila italiani su 59 milioni, un risultato che, con l’onestà intellettuale di sempre, Ferrara ha definito “catastrofico”. Ha fatto benissimo però Giuliano a trasformare il Foglio in un’allegra corazzata pronta a combattere contro il silenzio ideologico che ha ucciso qualsiasi tentativo di riparlare d’aborto. Di riparlarne, non di abolire la 194 o di tifare per il ritorno dell’aborto clandestino. Non si contano più le adesioni, da tutto il mondo, alla campagna lanciata da questo piccolo giornale di trincea a cui va il più sentito dei grazie. Grazie per averci restituito la possibilità di parlare di Vita e di gioia e non solo di quattrini (importanti, ma vivaddio siamo fatti anche di anima e di speranze che non si toccano) e altre idiozie elettorali (sempre troppe). Grazie per averci fatto apprezzare ancor di più “Juno”, la storia di una ragazzina che accende una vita e insieme il sorriso di quei genitori che l’attendevano da tempo. Una piccola donna che ci insegna a vivere e a suonare a ritmo del cuore la sua splendida chitarra Gibson.